La grande crisi dei mutui spazzatura

Data di pubblicazione: 
Sunday 19 October 2008
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Wall Streetdi Giorgio Gattei

Nel 2001, quando al collasso della new economy si è aggiunto l'attentato terroristico dell'11 settembre, gli Stati Uniti se la sono vista brutta. Che potesse prendere piede una economia della paura capace di bloccare la crescita futura del PIL? A rimedio la scienza economica consiglia di aumentare i consumi delle famiglie mediante l'aumento dei salari (che vanno però a discapito dei profitti), di favorire gli investimenti delle imprese con l'abbassamento dei tassi di interesse, di aumentare la spesa pubblica anche in deficit spending, ossia senza copertura finanziaria

E se in quest'ultimo caso i incontrano difficoltà politiche insormontabili, c'è sempre la spesa militare che non ha mai sofferto d'opposizione.

Sulla base di queste opzioni il governo di Bush «il piccolo» ha scelto da subito la via della guerra (prima in Afghanistan e poi in Irak), avendo per obiettivo il rilancio del PIL mediante le commesse belliche e a riduzione del prezzo del petrolio che si sarebbe guadagnata quando, a vittoria conseguita, sarebbero affluite sul mercato le ingenti riserve irakene. Ma pure la Federal Reserve ha fatto la sua parte abbassando il tasso di sconto dal 6,5% del gennaio 2001 all'1% del giugno 2003. Tuttavia qui è stata necessaria una modifica rispetto alla teoria, perché in epoca di globalizzazione non si poteva più fare tanto affidamento sugli investimenti delle imprese che, avendo delocalizzato all'estero dove il costo della manodopera è più basso, col credito concesso avrebbero investito sì, ma all'estero.

E' così che, con innovazione pratica straordinaria, il presidente della FED ha deciso di rivolgere la riduzione del tasso di sconto al sostegno dei consumi delle famiglie favorendone l'indebitamento ipotecario immobiliare. Che tutti diventassero proprietari di casa propria a colpi di mutuo! E siccome si annunciava pubblicamente che il tasso di sconto sarebbe ancora diminuito, si incoraggiava la stipula di mutui a tasso variabile, così che sulle rate future da pagare risultassero interessi sempre più ridotti.

E siccome il valore di un immobile è misurato dalla somma delle rate da pagare divisa per il tasso di sconto, con la diminuzione di questo le famiglie avrebbero visto aumentare il valore della casa messa a garanzia del debito contratto per acquistarla, e su quell'aumento di valore avrebbero potuto chiedere ulteriore credito alle banche da destinare questa volta direttamente ai consumi. Per sostenere poi al massimo la crescita del PIL si è deciso anche di aprire il credito a chiunque, perfino ai clienti ninja (No Income, No Job and Assets) che sono quelli che non hanno stipendio, occupazione o patrimonio, ma nonostante ciò si sono visti concedere prestiti sebbene privi di alcuna garanzia (ovviamente per tanto favore essi avrebbero pagato tassi d'interesse più elevati, che comunque erano garantiti a calare).

Ma non c'era un rischio per le banche ad essere così prodighe di credito senza copertura? Niente affatto se questi mutui, anche i peggiori chiamati sub-prime, potevano venire cartolarizzati, ossia trasformati in titoli commerciabili sul mercato, così che il rapporto creditizio si trasferisse dalla banca emittente al nuovo acquirente. Ma chi si azzarderebbe mai a comprarli? Così come si presentano, nessuno.

Ma essi potevano essere nascosti, insieme ad altri titoli più sicuri con tasso d'interesse più basso, dentro obbligazioni collaterali di debito (CDO, o "pacchetti-salsiccia") che, proprio per la presenza di quei titoli-spazzatura, avrebbero offerto ai sottoscrittori rendimenti superiori, ad esempio, dei titoli di stato. Per ultimo intervenivano le agenzie di rating, che istituzionalmente hanno il compito di valutare i titoli presenti sul mercato misurandone la sicurezza mediante indici di qualità (AAA per quelli più sicuri). Queste valutazioni sono fatte da esperti finanziari, ma siccome per il servizio le agenzie di rating sono pagate dalle banche che emettono i titoli, esse hanno finito per favorire i propri "datori di lavoro" assegnando la qualifica AAA anche a quei CDO con dentro i mutui subprime.

I quali, così ben nascosti nei pacchetti-salsiccia e sopravvalutati dagli indici di rating, hanno preso a circolare alla grande per il mondo (1400 miliardi di dollari nel 2005-2006 e altri 700 nel primo trimestre del 2007). Tutto congiurava a renderli apprezzabili quanti altri mai perché capaci di assicurare interessi più alti, dipendendo da debitori ad alto rischio, ma ciononostante presentandosi come più che sicuri perché favoriti della "tripla A". Gli esperti finanziari ipotizzavano che, spalmandosi su di una vasta massa di risparmiatori, nel caso di una singola insolvenza il danno per il mercato sarebbe risultato insignificante. E su questi "miracolosi" titoli di credito hanno proliferato i contratti derivati (assicurazioni, scommesse e quant'altro) inventati dalla fantasia delle banche d'affari per far sì che tutti, ma proprio tutti, ci guadagnassero dall'indebitamento crescente delle famiglie americane.

 

2. Gli anni dal 2002 al 2006 sono stati una vera pacchia per i consumatori americani (che nel 2004, per riconoscenza, hanno rieletto Bush «il piccolo» senza necessità di brogli come accaduto nel 2000: non era patriottismo, era tornaconto economico). Ma lo sforzo finanziario è stato veramente imponente se dal 2000 al 2006 si sono fatte indebitare le famiglie di 18.200 miliardi di dollari per produrre 3.800 miliardi di dollari di PIL. Si trattava tuttavia di una pacchia drogata da quel credito illimitato concesso dalle banche "a cani e porci" che sarebbe potuta durare soltanto se i tassi d'interesse avessero continuato a diminuire. Ma questo avrebbe richiesto che la guerra irakena si chiudesse in fretta, consentendo agli Stati Uniti di coprire la "bolla creditizia" interna con i proventi economici della riuscita spedizione militare di rapina.

Sappiamo però che così non è stato. A dispetto dell'annuncio di «missione compiuta» dell'aprile 2003, la guerra è proseguita e l'Irak si è trasformato in un «pantano» che ingoia militari (comunque pochi rispetto ai caduti in Vietnam) ma soprattutto consuma risorse finanziarie: 3000 miliardi di dollari, giusta la stima a marzo 2008 del premio Nobel Joseph Stiglitz, quando invece si era promesso che non si sarebbero superati i 50 miliardi. A copertura il Bush «il piccolo» ha dato fondo all'avanzo di bilancio lasciato dalla precedente amministrazione Clinton e poi si è messo a spendere in deficit spending (come da teoria) col bel risultato che il bilancio federale è finito in rosso (da +1,6% nel 2000 a -1,9% nel 2006, ma con una punta a -3,6% nel 2004). Né la spesa militare si è rivelata produttiva perché in Irak non arrivano a fruttare gli investimenti previsti per la ricostruzione, mentre il petrolio stenta ad arrivare sul mercato (si
producevano 3 milioni di barili prima della guerra, che adesso si sono ridotti a 2 milioni) proprio quando la domanda internazionale in crescita. Risultato? Il prezzo del petrolio è schizzato dai 20 dollari al barile del 2000 a oltre i 100 $/barile del 2007.

Eppure l'inflazione dei prezzi negli Stati Uniti è stata contenuta. Come mai? E' questa un'altra "magia" della globalizzazione, perché i consumi delle famiglie indebitate si sono diretti verso le merci straniere ampiamente importate dalla grande distribuzione commerciale in quanto più convenienti dei prodotti nazionali. Così i prezzi di vendita sono stati mantenuti bassi, ma al prezzo di una *bilancia commerciale* (differenza delle esportazioni dalle importazioni) è finita altrettanto in rosso (da -389 miliardi di dollari nel 2001 a -856 miliardi nel 2006), di cui si sono largamente avvantaggiati i paesi che esportano negli Stati Uniti, come ad esempio la Cina.

A fronte dei due "deficit gemelli" federale e commerciale che continuavano a crescere le autorità monetarie dovevano. Per favorire le esportazioni si è *svalutato il dollaro* (che dal cambio 1:1 con l'euro a fine 2002 è finito a 1,5 dollari per euro), mentre per evitare la fuga dei capitali dai titoli in dollari svalutati si è dovuto *rialzare il tasso di sconto* (dall'1% dell'estate 2003 al 5,25% di metà 2007). Tutto giusto naturalmente, perché la teoria insegna di fare proprio così.Soltanto che l'ultima decisione ha finito per travolgere i bilanci delle famiglie indebitate che sui mutui a tasso variabile hanno visto crescere gli interessi da pagare, mentre contemporaneamente si è ridotto il valore patrimoniale degli immobili acquistati portando allo scoperto eccedenze di credito che le banche si sono affrettate a chiedere di coprire.

Chi non è in grado di pagare il mutuo, rischia così di vedersi pignorare la casa posta in garanzia oppure è costretto a venderla, mentre i clienti ninja, per i quali non ci sono garanzie patrimoniali su cui rivalersi, non pagano e basta. Peggio per i loro creditori che, in conseguenza della circolazione dei CDO "a tripla A", sono ormai sparsi in tutto il mondo.

E' così che, di fronte al rischio d'insolvenza, dappertutto chi aveva titoli ha cercato di realizzarli non appena possibile, da cui l'altalena dei corsi di Borsa che, non appena un giorno vanno su perché c'è chi compra, il giorno dopo vanno giù perché c'è subito chi vende), mentre le banche in crisi di liquidità si tengono ben stretto il contante posseduto, chiudendo i normali canali di finanziamento tra loro oppure facendosi pagare un interesse interbancario più elevato, che è poi quello preso a misura degli interessi sui mutui. Nemmeno il pronto intervento di Federal Reserve e Banca Centrale Europea, che ad agosto 2007 hanno prestato al sistema bancario centinaia di miliardi di dollari e euro (ma con restituzione a breve termine), è stato capace d'invertire la tendenza a "tenersi liquidi". Così la FED ha dovuto rinnegare la politica monetaria di rigore riducendo il tasso di sconto fino al 2%, ma questa volta senza essere seguita dalla BCE che dal 2% del 2005 lo ha portato al 4% a metà 2007 e continua a tenerlo lì. Di conseguenza l'euro si rivaluta sul dollaro, invogliando i risparmiatori ad abbandonarlo a favore della moneta europea (dove porterà questa "guerra monetaria" non è ancora dato a sapere, ma intanto la sterlina già s'interroga sulla sua incrollabile fedeltà al dollaro...).

Da parte sua il governo britannico, al primo fenomeno di "assalto agli sportelli" ad una banca (la Northern Rock), ha invertito la salda tradizione di "privatizzazioni" alla Thathcer-Blair affrettandosi a nazionalizzarla, mentre negli Stati Uniti la Bearn Stearns sull'orlo del fallimento è stata acquistata dalla JP Morgan (ma con denaro preventivamente ricevuto dalla FED). Il fatto è che le aspettative sul futuro restano tutte al negativo perché la dimensione di quella che si presenta come una crisi finanziaria sistemica appare veramente colossale.

Una valutazione complessiva di tutto quanto è a rischio d'insolvenza - non solo i mutui sub-prime ma pure i prime a tasso variabile, non solo i debiti delle famiglie ma pure quelli delle imprese, non solo le carte di credito ma pure i contratti derivati -porta ad una cifra sui 1000 miliardi di $, secondo l'ultima stima del Fondo Monetario Internazionale (aprile 2008). E siccome finora banche ed stituti finanziari hanno effettuato svalutazioni, ossia hanno messo a perdita di bilancio, soltanto 200 miliardi, ce ne sarebbero ancora 800 miliardi da "digerire". A meno che non abbia ragione Nouriel Roubini, il più catastrofista tra gli economisti, che ha parlato di 3000 miliardi di $ di svalutazioni (la stessa cifra stimata da Stiglitz per il costo delle guerre americane in corso) che qualcuno sarà costretto dolorosamente a pagare.

Per questo alle «65 raccomandazioni» espresse dal Financial Stability Forum presieduto da Mario Draghi nell'aprile 2008, che consigliano appena «vigilanza prudenziale» sugli intermediari e «trasparenza» nella concessione dei mutui e nella valutazione dei rating, ben si addice il giudizio d'insufficienza espresso da Giulio Tremonti: «è come chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati». Né vi si parli dello strumento più efficace che potrebbe essere messo in campo per salvare il sistema inanziario: «le nazionalizzazioni che sono state fatte e si faranno ancora» (20 aprile 2004).

 

3. Se si credesse però di essere di fronte alla ripetizione della Grande Crisi del 1929, si commetterebbe un grave errore perché la situazione di oggi non è affatto come quella di allora. Oggi, a differenza di allora quando il mondo intero precipitò nella depressione economica, è soltanto una parte del sistema capitalistico che è in crisi di liquidità: gli Stati Uniti e l'Europa. Altrove si procede alla grande, sostenuti dalle straordinarie esportazioni di petrolio e manufatti proprio verso gli Stati Uniti e l'Europa, così che il Fondo Monetario Internazionale può prevedere per 2008 e 2009 un PIL al 6% in Russia, all'8% in India, al 9% in Cina.

Ma che c'entrano questi paesi, e il mondo islamico con loro, con la crisi dei mutui-spazzatura? C'entrano perché in cambio di quelle esportazioni crescenti essi ricevono dollari che servono quale riserva delle rispettive monete. Ma siccome adesso quei dollari sono in via di svalutazione e quindi acquistare titoli del debito pubblico degli Stati Uniti, come fatto in precedenza, non è più un investimento conveniente, con le eccedenze valutarie quei paesi hanno costituito dei fondi sovrani (sovereign wealth funds) che sono fondi d'investimento pubblici destinati ad acquistare assets patrimoniali (ossia immobili ed imprese) un po' dappertutto nel mondo.

I fondi sovrani sono nati nei paesi esportatori di petrolio, come Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, ma c'è un fondo sovrano anche in Norvegia (si tratta del fondo pensione pubblico) e poi a Singapore che, incassando i pedaggi per il passaggio dello stretto di Malacca, ha costituito il fondo Temasek che è uno dei più attivi. Anche la Cina, che si trova a possedere un ingente avanzo commerciale, ha costituito nel 2007 il suo fondo sovrano, la China Investment Corporation, con dotazione iniziale di 200 miliardi di $.

Sebbene quindi la presenza di questi fondi sovrani non sia una novità, solo con la crisi dei mutui-spazzatura sono venuti alla ribalta perché, disponendo di ingente denaro liquido, possono ripianare "pronta cassa" proprio le svalutazioni a cui banche ed istituti finanziari sono costretti dalla crisi dei mutui. E così è stato: nel 2007 i primi 10 fondi sovrani hanno investito 3 miliardi di $ spalmati su 52 diverse operazioni di salvataggio o acquisizione e nessuno ha eccepito sul fatto che fossero investitori di Stato esteri. Gli Emirati Arabi Uniti sono entrati in Citigroup con 7,5 miliardi di $, Singapore in UBS con 11,5 miliardi di franchi svizzeri e poi in Merrill Lynch con 5 miliardi di $ e in Barclays con 2 miliardi, mentre il fondo sovrano di Pechino ha investito 5 miliardi in Morgan Stanley, 3 miliardi in Blackstone e 1,9 nella petrolifera Total.

I fondi sovrani non sono però del tutto innocui, avendo alcune caratteristiche difficili da far digerire ad un "libero mercato". Prima di tutto sono statali (sono governi, non proprio democratici, a possederli) e perciò non sono trasparenti (non sono tenuti a dare comunicazione ai mercati delle loro operazioni d'investimento); non rispondendo ad azionisti privati, non hanno di mira un dividendo annuo e quindi possono investire a lungo termine con ottica strategica piuttosto che speculativa con obiettivi di partecipazione strategica in settori come infrastrutture, finanza, high tech, risorse energetiche e materie prime; sono particolarmente appetibili perché offrono liquidità immediata, ma se finora sono rimasti investitori "passivi", potrebbero nel futuro esigere di contare nelle decisioni aziendali (a partire, per esempio, dal diritto di voto in assemblea).

Ovviamente c'è già chi si preoccupa per questa invasione di capitale straniero. Ma dire sì o no dipenderà dalla dimensione e dalla durata della crisi. Attualmente i fondi sovrani sono presenti sul mercato con un ammontare complessivamente stimato attorno ai 2500 miliardi di $, ma per il 2015 si prevedono 12.000 miliardi che, tanto per avere un'idea, corrispondono grosso modo al PIL degli Stati Uniti. Troppi soldi per lasciarli stare alla finestra, se la crisi dovesse aggravarsi. E così, come è stato osservato da Francesco Arcucci, «il primo a cogliere questa necessità è stato il presidente della FED Bernanke che ha capito che per scongiurare il disastro... era necessario aprire il capitale azionario del Gotha bancario ai barbari. L'impero romano, mutatis mutandis, non ha fatto lo stesso per sopravvivere ancora alcuni decenni?» ("La Repubblica", 10.3.2008). Vero, però alla fine Roma i barbari se la sono presa.

Settembre nero.

Avevo finito le pagine precedenti a maggio 2008, convinto che la crisi finanziaria si sarebbe approfondita fino ad intaccare l'economia "reale" (il sistema delle imprese). Ma le Grandi Crisi non si manifestano mai con un botto e via (come i terremoti), procedono con movimenti entissimi e progressivi alla maniera di quei fenomeni di bradisismo che poi alla fine hai Venezia sott'acqua. E' questo carattere che inganna: al primo segnale di sosta tutti si sbracciano a dire che «ne siamo già fuori» e tu fai la figura del menagramo che si augura sfasci che non ci sono più.

Non ero convinto. E così quando Henry Paulson, segretario USA al Tesoro, proclama al mondo che «il peggio è alle spalle; sono ancora possibili sorprese ma non ci sono dubbi che le cose vanno meglio» (26 maggio), mi sono messo a ritagliare i giornali. Dopo il fortunoso salvataggio di Bear Stearns, quale la prossima bancarotta? "Terremoto Morgan Stanley" (22 marzo); "Si aggrava la crisi Merrill Lynch" (18 aprile); "Scossone a Deutsche Bank" (30 aprile); "Affondano AIG e Citigroup" (10 maggio); "Lehman perde 2,8 miliardi" (10 giugno); "Fallimento IndyMac" (13 luglio); "UBS crolla in borsa" (26 luglio); "Merrill: mega-svalutazione" (30.7); "Freddie Mac al tappeto" (7 agosto); "Crolla Fannie Mae" (9 agosto); "Columbian getta la spugna" (25 agosto); "Merrill brucia gli
utili" (30 agosto) - e non ho ritagliato tutto.

Ritorno dalle vacanze e, come dissero a Chernobyl, «si fonde il nocciolo». Freddie Mac e Fannie Mae sono due benemerite istituzioni finanziarie private, ereditate dal New Deal, che hanno erogato mutui immobiliari alle famiglie per 5.200 mld di $. Ora succede che le famiglie no arrivano più a pagare le rate. Saranno i bassi salari, la disoccupazione in aumento, l'inflazione in crescita, gli alti tassi d'interesse - ma quelle non ce la fanno più ad onorare il debito. Però Freddie Mac e Fannie Mae hanno emesso proprie obbligazioni per fornirsi di liquidità e queste obbligazioni (sicure perché garantite dalle case) sono finite un po' dappertutto, in altre banche e fondi comuni, perfino nelle casse di banche centrali. Ma senza le rate come possono fare Freddie Mac e Fannie Mae a pagare le proprie obbligazioni in scadenza?

Non le pagano e dovrebbero fallire. E' il mercato, bellezza! – direbbero i liberisti di stretta osservanza. Però ne sarebbero travolti i mille sottoscrittori e proprio mentre si approssimano le elezioni presidenziali. Non si può proprio. E così, a dispetto del mercato «da lasciare a se stesso», si corre al salvataggio. Paulson (sempre lui) annuncia che Freddie Mac e Fannie Mae passano sotto il controllo del governo che ne assume i debiti impegnandosi per 100/300 mld di $ (8 settembre). I liberisti mugugnano, ma non c'è da temere: è solo una misura una tantum, l'eccezione che conferma la regola della non ingerenza dello Stato nel mercato (e così «Obama e McCain: bene così»).

Passano pochi giorni ed è Lehman Brothers a vedersi il titolo precipitare in borsa del 40% (10 settembre). Questa volta non si annunciano salvataggi pubblici; si cerca una "cordata privata" ma gli interpellati (tra cui la coreana Kdb, China Investment e l'inglese Barclays) si defilano. Si chiede a Bank of America, è impegnata a salvare Merrill Lynch. Risultato: Lehman Brothers porta i libri in tribunale (16 settembre). E' fallimento e peggio per il Fondo pensione integrativo Cometa (dei metalmeccanici) che si trova in pancia 3,5 ilioni di euro di titoli Lehman.

Passa un giorno e la nuova vittima sacrificale è American International Group, la più grande compagnia d'assicurazione del mondo, per cui non si temevano rischi di fuga dei clienti perché (si diceva) «è molto più difficile riscattare una polizza che chiudere un conto corrente» ("La Repubblica", 13 settembre). Invece tutti vendono e McCain virilmente annuncia: «Lasciamo che fallisca, un salvataggio pubblico sarebbe un azzardo morale» (17 settembre).

Ma non si può e il perché me lo spiega Luigi Spaventa (L'enigma americano, "La Repubblica", 18.9.2008): AIG aveva sviluppato una divisione «gagliardamente impegnata in tutte le magie della nuova finanza», soprattutto in 440 mld di $ di credit default swaps con cui i sottoscrittori si assicuravano da insolvenze delle obbligazioni da loro possedute (io ti pago lo swap, ma se le mie obbligazioni non vengono pagate, me le rimborsi tu). Se fallisse AIG, «vanificando il riparo dall'insolvenza» si metterebbero in gioco non soltanto i CDS, ma si vedrebbero «liquefare i valori degli strumenti protetti nel portafoglio delle istituzioni finanziarie» che non avrebbero più paracadute. Se finisse così, gli investitori potrebbero liquidare in fretta tutti quegli "strumenti", precipitando la crisi di borsa. Non potendo lasciar fare così al mercato, anche AIG viene salvata dal governo con l'acquisizione dell'80% del capitale in cambio di un «prestito» (ma vorrà dire acquisto!) di 85 mld di $ (18 settembre). E' la seconda eccezione che questa volta sconferma la regola. E infatti...

Mentre si attende un'altra vittima (Goldman Sachs o Morgan Stanley?) il 0 settembre 2008 Bush «il piccolo» annuncia a sorpresa «una svolta nella storia dell'economia americana» che di fatto sancisce la fine della pratica (e dell''ideologia) liberista. Il governo americano costituisce un «veicolo federale» (leggi: ente pubblico!) che s'impegna ad acquistare da banche e assicurazioni tutti i titoli invendibili sul mercato, in particolare tutti quelli legati ai mutui sub-prime, al 65% del loro prezzo nominale. E' roba da crisi del '29 con lui lo Stato si propone come aspirapolvere di spazzatura, liberando la finanza dei suoi guai semplicemente perché se li accolla lui. Paulson (sempre lui) spiega che tutto questo implicherà «un uso significativo di risorse del contribuente» stimabile attorno ai 700/1000 mld di $.

Insomma: pagherete caro, pagherete tutto! E forse non sarà abbastanza perché la ricaduta della crisi finanziaria sul sistema delle imprese potrebbe (dovrà) costringere a salvare anche queste. Trasecolo, e mi sovviene un ricordo di Enrico Cuccia, mitico patron di Mediobanca, che appena assunto all'IRI (l'ente di salvataggio costituito negli anni '30 da Mussolini) vedeva affollarsi la sala d'aspetto dell'Istituto d'imprenditori che presentavano senza vergogna le ferite dei propri bilanci pur di ricevere soccorso dalla mano salvifica dello Stato. Adesso negli Stati Uniti mi sembra che prenda a girare un po' così, almeno finché il bilancio federale terrà. Ma poi? Restano solo i fondi sovrani stranieri, «seduti sulla riva del fiume ad aspettare il cadavere del nemico».

da "La Contraddizione"