Un ricordo di Gino Donè Paro

Data di pubblicazione: 
Tuesday 01 April 2008
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Gino Donè ParoA pochi giorni dalla scomparsa di Gino Donè Paro, pubblichiamo questo articolo di Maurizio Chierici tratto da un'intervista del 2001

FORT LAUDERDALE (Florida) - Raccoglie nella sabbia il dente di un pescecane. Sotto il cappello da cowboy, lo sguardo azzurro di un vecchio signore. Alza gli occhi verso le nuvole che minacciano la pioggia tiepida dell’estate tropicale. Un incontro come tanti nella Florida dei pensionati.  Passi pigri lungo il mare, eppure questa faccia hemingwayana ha un’aria diversa dagli altri signori.

A suo modo è la faccia di un fantasma. Si chiama Gino Donè. Il suo nome appare nelle lapidi eppure nessuno ha mai spiegato dove fosse sparito e perché. Nessuna traccia per 45 anni. Quarantacinque anni fa, 5 dicembre ’56, ai piedi della Sierra Maestra di Cuba, in un posto dal nome sbagliato - Alegría de Pío - lo sfaccendato che adesso raccoglie i denti di squalo ha visto per l’ultima volta un amico col quale aveva attraversato notti di chiacchiere a Città del Messico: Ernesto Guevara. Guevara stava curando i piedi martoriati di chi aveva marciato nella melma e sulle pietraie.

Gli aveva sorriso come per dire: «Fin qui ce l’abbiamo fatta». Il vecchio signore aveva allora 32 anni. Disse al Che: «I miei uomini non riescono più a camminare. Chiodi degli scarponi che graffiano i piedi. Puoi fare qualcosa?». «Finisco qui e li mando a chiamare», risponde Guevara con fasce e alcool in mano. Il signore torna al posto di combattimento, cento metri in là. Guida il plotone di retroguardia col grado di tenente della rivoluzione agli ordini di Raul Castro. Deve coprire le spalle agli 82 uomini sbarcati dal Granma. Esercito e aerei del dittatore Batista li stanno seguendo.

Appena siede nell’ombra pallida della canna da zucchero «arrivano centinaia di militari e un diluvio di pallottole. Cerchiamo di nasconderci fra le canne, ma piccoli aerei volano basso. Guidano la caccia a chi ci insegue. Mitragliano». Quelle parole veloci e senza emozione saranno le ultime parole che si scambieranno Gino Donè e Che Guevara. Ferito al collo, il Che viene trascinato da un’altra parte. Non si vedranno più.

«Ernesto», sospira oggi Donè. «Io lo chiamo ancora così. Che , non mi piace». Per mesi il tenente della retroguardia cercherà di raggiungerlo nelle montagne dell’Escambray. Arresti e imboscate lo costringono a scappare. Ritrova la clandestinità su una nave diretta a New York. «Ho visto molto più di quanto possa raccontare. Mi resta poco tempo».
Per quasi mezzo secolo di Gino Donè è rimasto solo un nome nei libri che ricordano l’impresa del Granma, piccola barca con la quale Castro e gli altri sono sbarcati per cominciare la rivoluzione. La faccia pulita del giovanotto spunta nell’albo degli «Eroi» accanto al profilo irsuto di un Fidel, occhi ancora da studente, e di un Guevara grassoccio, diverso dalla figura romantica che ormai sventola a ogni corteo. Di Donè non si sapeva altro.

Un nome e un volto che il tempo doveva aver cambiato. Nessuno immaginava come. «Desaparecido», scrive il libretto trovato su una bancarella nelle strade attorno alla cattedrale dell’Avana. Ma perché è andato via? Ho incontrato Donè con tante domande. «Tutto è cominciato a Cuba. Molto, molto tempo prima che il Granma prendesse il mare».

Gino Donè ha 77 anni. Viene da Passarella, San Donà di Piave. Dal 1960 abita negli Stati Uniti: cittadino americano. Negli archivi dell’Avana il suo nome figura fra i protagonisti dell’impresa del Granma. A bordo c’erano 79 rivoluzionari cubani più tre stranieri scelti da Castro perché «speciali». Il medico giramondo Ernesto Guevara, argentino: aveva conquistato Fidel nelle notti dell’esilio di Città del Messico. Stava cercando un ideale al quale affidare la vita.

Il secondo straniero è un dominicano, Ramon Mejias, detto Pichirillo . Il terzo è lui, Gino Donè, arrivato a Cuba da clandestino, fuggendo da un dopoguerra italiano senza lavoro per un milione di reduci. Veniva dalla Resistenza attorno al Piave.Scivolava fra i tedeschi appostati sugli argini che abbracciavano le paludi attorno alle spiagge di Caorle e Jesolo, trascinando piloti inglesi e australiani nascosti da contadini senza paura.

Arriva all’Avana nel ’52. Fa tanti mestieri: decoratore, ferraiolo che prepara i calcestruzzi del monumento di Martì al centro di quella che oggi si chiama piazza della Rivoluzione. Manovra i bulldozer che piantano i ponti della nuova strada per Trinidad. E alla sera questo italiano biondo passeggia nei giardini della città coloniale. Conosce una bella ragazza, Norma Turigno: si sposano. Entra nella famiglia di un ricco commerciante di tabacco.

Aleida Guevara, vedova del Che , tre mesi fa continuava a chiedermi: «Chissà come ha fatto Gino a entrare in contatto con Fidel». La risposta viene dai viaggiatori che vanno e vengono dalla casa di Trinidad. Appartengono al partito Ortodosso, di matrice liberale, che appoggia la resistenza segreta degli esuli confinati a Città del Messico attorno ai fratelli Castro, graziati da Batista dopo quasi due anni di prigione per via di quell’attacco fallito alla caserma Moncada.

Da fuori preparano la rivincita mentre a Cuba una rete segreta irrobustisce l’impresa. Servono soldi. Bisogna portarli in Messico con mani sicure. Ed ecco che, nella casa della moglie, il medico Faustino Perez chiede a Gino di andare da Castro. «Peccato essere una donna», è l’invidia di Norma, «andrei subito a combattere con lui». Perez le dà un bacio. Anche il medico si prepara a navigare sul Granma e a diventare ministro di Fidel. Stanno per cominciare «anni di gloria». Solo Donè sceglierà l’ombra.

Gino era finito in una famiglia che odiava la dittatura. Chiusa la sua guerra italiana, ricomincia nei Caraibi. Fa la spola tra l’Avana e Città del Messico. Due viaggi con passaporto italiano e nessun sospetto. Gli imbottiscono la giacca di dollari. Li consegna a Castro mentre Juanita, sorella del leader di una rivoluzione in quel momento virtuale, prepara il caffè. Oggi Juanita vive a Miami e non perde occasione per insultare il fratello.

Perez informa Castro sulla storia di Gino. Fidel gli fa domande. Ascolta le lunghe risposte in un silenzio insolito per il suo carattere. Donè lo osserva. Più imponente di come immaginava. Vestito «da sembrare un avvocato in tribunale. Trasmetteva sicurezza». Castro ha in mente di arruolarlo nell’impresa. Servono uomini esperti perché i cubani che stanno per partire non hanno mai sperimentato vere battaglie. Vuole che Gino sia della partita, ma non lo dice subito. Cerca di capire chi è.
L’ha invitata a cena? «Purtroppo no: una sfortuna. Ernesto raccontava che Fidel era un cuoco fantastico. Faceva spaghetti con pesce e frutti di mare».
Cucinava anche il Che... «Può darsi, ma erano giorni di malinconia. Amore finito con la moglie, e Hildita, la figlia appena nata, anche lei lontana. Non aveva voglia di niente. Continuava a chiedermi della guerra in Italia, dei nazi, di Mussolini e mi interrompeva con la domanda che l’ossessionava: "Pensi che riusciremo a mandar via Batista?". Impossibile, rispondevo. Ho combattuto con gli americani e so quanti soldi, quante munizioni e di quale risorse dispongono. Non ce la faremo mai se vogliono appoggiare la dittatura, eppure bisogna tentare. Del resto non ho scelta. Se non provo non posso tornare a casa: Norma mi butterebbe fuori. E poi c’è Fidel. Lui inventa tante cose».

Le piaceva il Che ? «Avevamo le stesse idee. Non importa se lui era ateo e marxista mentre io ero cresciuto attorno ai preti veneti, anche se ormai la mia fede era debole. Ci legava la ribellione all’ingiustizia e l’essere sempre dalla parte di chi non sapeva difendersi. Però Ernesto esagerava. Qualche volta, arrivai a prenderlo per la camicia. Eravamo andati a cena in un posto economico, da pochi pesos: una fonda , come si diceva. Perché la paga era niente. Anche Castro tirava la cinghia. O si mangiava o si fumava. Una sera contiamo i soldi: 12 pesos per uno. Appena da sfamarci. Ernesto, il Pichi dominicano e io entriamo in questa taverna che di bello aveva solo una cameriera indiana guahal. Ne eravamo innamorati. Ernesto resta dietro.

E poi arriva assieme a una vecchia e due bambini. Compra da mangiare al banco. La donna se ne va con scodelle piene. Finalmente si siede al tavolo: "Stasera non ho appetito", annuncia con allegria. Aveva speso fino all’ultimo soldo per i mendicanti. Mi è andato il sangue alla testa: la città è piena di straccioni, gli dico. Non possiamo sfamarli tutti e sei troppo importante per noi. Impossibile cominciare la rivoluzione se non riesci a stare in piedi. Pichi fa da paciere: "Dividiamo quello che c’è". Ernesto confessa con un’innocenza che disarma: "Quando vedo la fame negli occhi degli altri, la vedo, capisci, devo subito fare qualcosa. Anche vuotare le tasche degli ultimi spiccioli"».

Portano Donè a sparare nel poligono dove si addestrano sotto la guida di un vecchio ufficiale, grosso, un po’ lento: colonnello Alberto Bayo, madre cubana, padre spagnolo. «Aveva perso un occhio contro Franco e pensare - raccontava - che Franco era stato il suo comandante quando andava a caccia di ribelli nel Rif marocchino.

Insegnava tecnica della guerriglia nella scuola militare di Salamanca. Bravissimo nelle teorie, non proprio aggiornato sulle furbizie che la seconda guerra mondiale ci aveva insegnato. Erano questi i miei pensieri mentre ascoltavo le sue lezioni sui prati della tenuta di Santa Rosa, una montagnola non lontano dalla città. Andavamo là a sparare. Fucili col binocolo. Bayo dava il voto contando i fori». Castro sparava? «Era bravo.

Ma non gli piacevano i bersagli immobili. Preferiva tirare ai tacchini». Poi Donè viene rimandato a Cuba. Riappare in Messico col pacco dei dollari più pesante. Settembre ’56: Fidel sta comprando il Granma, dall’Avana arrivano i fondi. Servono per un’infinità di cose: le scarpe, per esempio: «Se Ernesto mi ripeteva di voler visitare Bologna per la scuola di medicina, Castro apprezzava dell’Italia il buon gusto e la precisione degli artigiani.

Ha voluto che le scarpe della spedizione le facesse un calzolaio italiano. Su misura. Ho scambiato qualche parole con l’uomo che si chinava sul mio piede: minuto, silenzioso e infastidito dalla mia curiosità. Non alzava gli occhi. Ma le scarpe erano buone. Solo i tacchi, con quei chiodi, ci hanno dato un sacco di guai».

Sul Granma, nel mare in tempesta, la storia di Gino è uguale alla storia di tutti. Soffre un po’ meno degli altri: è abituato a navigare. La fame resta la stessa. Dopo due giorni finiscono acqua, frutta e scatolette. Restano arachidi e altre noccioline. Cento ore di niente. Quando appoggia i piedi sul fondo della laguna dove il Granma si è impantanato - le 4 e mezzo del mattino, domenica 2 dicembre 1956 - Donè non è scontento. Ha imparato contro i nazi a muoversi in palude, ma ignora l’insidia delle mangrovie: radici dove inciampano le scarpe. Spine che strappano la tuta verde oliva indossata prima dello sbarco.

E i morsi dei granchi. Dopo quattro ore di traversata nelle mangrovie sotto il tiro di aerei, fucili e cannoni di Batista; dopo cinque ore di marcia forzata in terra ferma, arriva l’ordine del riposo: «Eravamo sfiniti. Confusi per essere arrivati nel posto sbagliato. Non ci aspettava nessuno. L’appuntamento era quattro giorni prima, un chilometro e mezzo più in là».
Ordine di fare l’appello col passaparola. Mancano in tanti. «Manca Ernesto, soprattutto». Fidel dice a Donè: «Va’ a cercarlo, ma non perdere tempo. Fa’ in modo di tornare presto». Gino ne respira la tristezza. Castro non sopporta la scomparsa di un amico tanto importante. Eppure deve andare avanti. L’inseguimento dei militari è cominciato.

Il racconto di Gino spiega in modo diverso la storia ufficiale di Cuba. «Prendo uno dei miei, forse si chiamava Luis. Torniamo verso la laguna. Non so dove trovavamo le forze: fame stanchezza, quei giorni all’aria aperta sul Granma, stretti come sardine, pioggia e mare grosso. Camminavamo in silenzio. Due chilometri, forse tre dalla parte di chi ci inseguiva. Ecco Guevara. Veniva avanti trascinando le gambe. Testa bassa. Fucile e lanciagranate sulle spalle. Appena ci vede cambia colore. Ancora più pallido, ma era sempre pallido. Si rianima.

Un abbraccio, forte. Lo confesso: dalla felicità l’avrei baciato, ma eravamo dentro una guerra e gli abbandoni non sono ammessi. Coraggio, ci aspettano, dico. Stiamo pensando di accamparci. Puoi riposare. "No - risponde - mi arrangio da solo. Andate". Cerco di levargli il fucile. Si arrabbia: "Il fucile lo tengo". A fatica gli sfilo il lanciagranate e lo passo a Luis. Poi Ernesto ha un altro attacco d’asma. Lo prego di mettersi in ginocchio. Nora, mia moglie, soffriva d’asma: mi avevano insegnato come darle conforto. Massaggiarle spalle e collo, dall’alto in basso, lentamente. Ernesto sospira: "grazie, puoi smettere", ma non si ribella se continuo. Non so quanto tempo è passato: forse mezz’ora. "Adesso andiamo". Gli metto un braccio attorno alle spalle. Risaliamo verso l’accampamento. Mi fermo nel plotone di retroguardia. Accompagna Ernesto da Fidel, ordino a Luis».

Nelle rievocazioni cubane, più o meno la stessa avventura (meno precisa, meno trepidante) viene testimoniata da Luis Crespo, forse l’uomo che il tenente Donè ha portato alla ricerca del Che . Facile spiegare lo scambio di paternità del salvataggio. Crespo continua a marciare fino all’Avana, mentre Gino sparisce e diventa un fantasma. Per anni nessuno è riuscito a capire se fosse vivo o sepolto chissà dove. Quando l’imboscata a Alegría de Pío disperde nella canna da zucchero il piccolo esercito di Fidel, Donè guida gli uomini verso la montagna.

Al suo plotone si uniscono altri sette miliziani comandati dal «capitano» Josè Smith Comas. «Un ragazzo. Studiava all’Avana, mi pare venisse da un’università negli Stati Uniti. Fidel gli aveva affidato la bandiera del Movimento. Simpatico, deciso, ma spaventato dall’imboscata. "Andiamo sul mare, è più facile scappare": lo ripeteva come un’ossessione. Dopo due giorni ci siamo divisi. Con i miei ho continuato dalla parte delle colline, lui ha piegato verso la spiaggia. Prima di lasciarci mi ha affidato la bandiera: "Se mi succede qualcosa portala a Fidel". Non la volevo; ha insistito. Chi ci dava la caccia aspettava sulla costa. Li hanno presi e fucilati. Non subito, dopo una lunga tortura».

Ha portato la bandiera a Castro? «Non l’ho più visto. L’ho affidata a contadini che ci hanno nascosti. Erano dei nostri. Più tardi ho saputo: la bandiera era tornata nelle mani di Fidel». Gino raggiunge Santa Clara, nel centro dell’isola. Nella casa di un dentista incontra « una bella ragazza». Deve addestrarla e poi guidarla nel battesimo di fuoco. Passeggiano abbracciati come fidanzati davanti al palazzo della prefettura. Aleida nasconde la bomba a mano nella borsetta.

La passa a Donè, ma Donè rinuncia. Le spiegazioni di Aleida e del vecchio italiano sono molte diverse. «C’era troppa luce», racconta oggi Aleida. «Aveva l’aria di una trappola», scuote la testa Donè. Gli sbirri tenevano d’occhio la maestrina. Si chiama Aleida March, più tardi sale sull’Escambray. Incontra il Che . Ne diventa la seconda moglie. Intanto Gino, inseguito dagli ordini di cattura della polizia di Batista, ricomincia a scappare.

Fa il marinaio su tante navi finchè si ferma a New York: 1958. Segue le conquiste di Fidel e del Che ascoltando la radio. Quando entrano all’Avana vorrebbe tornare. Ma il nuovo console cubano a New York lo guarda con diffidenza. Non gli concede il visto. Perchè non le ha spiegato di aver navigato sul Granma con Fidel? «Come potevo fidarmi? E poi sembrava una vanteria».
Maurizio Chierici

Il parere di Gianfranco Ginestri:
Chierici ha fatto uno vero scoop: dalla intervista a Gino risulta che il "CHE" voleva venire in ITALIA a specializzarsi alla Facoltà di Medicina di BOLOGNA.

L'intervista suddetta è molto interessante e politicamente corretta, però a mio avviso vi sono solo un paio di piccole dimenticanze fatte dall'intervistatore.

Cioè: non è vero che si parla sui quotidiani italiani per la prima volta di GINO, infatti "LA NUOVA VENEZIA" è già da vari anni che dedica pagine a GINO.

Inoltre, tra gli 82 ribelli del battello Granma i cubani non erano 79 ma 78, e gli stranieri non erano 3 ma 4: "Che", Gino, un dominicano e un messicano.

Infine, per quasi 40 anni, Gino è sempre stato in contatto telefonico con Jesù Sergio Montanè Oropesa (morto nel 1999) assistente personale di Fidel.

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