Atesia e la logica del brand

Data di pubblicazione: 
Thursday 25 December 2008

Proteste in Atesia di F. F.

Atesia: dopo la "stabilizzazione" la gallina ha smesso di fare le uova d’oro. Quando i diritti producono un calo del brand (si fa per dire!). La questione del “brand”, la marca, è centrale nella moderna economia capitalista, soprattutto quando si parla di prodotti di alta qualità e tecnologia (ad elevato “valore aggiunto”, si dice). Meglio ancora se il prodotto così fatto è contrassegnato anche da finalità etiche: portare l’acqua in uno sperduto villaggio dell'Africa, sminare un campo di guerra, sconfiggere il cancro. Un certo tipo di prodotto, attraverso opportune strategie di comunicazione, viene fatto “risaltare” di modo da indurre l’acquirente al suo acquisto e consumo.

In questo modo, lavorando sull’immaginario collettivo costruito sui modelli prevalenti e sulla coscienza spirituale di ciascuno, viene accresciuto il “volume”, ossia il giro d’affari legato a quel determinato bene. L’etica padronale, in questioni d’affari, non è una variabile indipendente. L’etica negli affari non ha alcun senso in sé (pensiamo per esempio al caso Telethon, vera e propria macchina pubblicitaria per Banche ed industria dello spettacolo, surrettiziamente camuffata sotto la veste di programma di beneficenza). L’etica degli affari non può seguire il percorso del giusto e dell’equo, ma semplicemente applica la domanda: “da questo comportamento socialmente rilevante io ricaverò un guadagno oppure una perdita economica?”.

E’ per questo motivo che capire i ragionamenti di un imprenditore è cosa assai più facile rispetto a seguire i contorti pensieri di tutta un’umanità altra, fatta di sentimenti, paure, tensioni. Per leggere le mosse di un padrone basta perciò fargli i conti in tasca. Occorre conoscere solo un po’ di addizione e sottrazione. L’esercizio è utile al sottoposto per farsi un’idea del proprio futuro: “Potrò ancora pagare le bollette o l’affitto?Riuscirò a fare la spesa anche il prossimo mese?” .

A queste domande si cerca di dare, non con la bacchetta magica ma deducendo dalla stessa spietata logica del padrone, una risposta. Tutto si basa sull’assunto: un capitalista è un capitalista, non una ONLUS. Punto.

Per esempio, quando sembra del tutto pacifico che il padrone voglia sganciare in maniera disinteressata un po’ di soldi per restaurare una piazzetta degradata o un vecchio palazzo storico, è sicuro giunto il momento di stare in campana: quei soldi “offerti” per amore della socialità sono una quota-parte di quel profitto che è tutto furto ai danni della classe dei produttori. In più, una ristrutturazione, un restauro, potendo accrescere il giro d’affari legato a quel bene decrepito recuperato, produce positive ricadute di immagine (e quindi di denaro) sulle attività (dirette ed indirette) del padrone “illuminato”.

Infine, il “consumatore”, il “cliente”, ma anche il potenziale partner in affari (pubblico o privato che sia), è così ben disposto verso un “brand” tanto meritorio da mettere tranquillamente mano al portafogli (e pagare di più per una cosa che magari ha lo stesso valore d’uso di un’altra equivalente ma di prezzo inferiore) . Si sente sempre più spesso dire: “Io compro solo da….io investo solo da…perché..”.

Perfino le sempre corrotte Pubbliche Amministrazioni parademocristianee PD-PdL hanno imparato questo esercizio “virtuoso” e nella cessione delle licenze ad edificare si chiede al costruttore qualcosa in cambio (l’etica dell’equivalenza dello scambio mafioso). La moderna speculazione edilizia dei politici e dei loro grandi elettori consiste nel regalare ettari ed ettari di terreno (reso edificabile attraverso piani regolatori mai discussi) a palazzinari compiacenti in cambio di “compensazioni” (il parchetto, il laghetto artificiale, il campetto, ecc..).

A loro volta questi interventi faranno aumentare il prezzo degli immobili della zona e quella che è stata a suo tempo una spesa diventa un altro valore aggiunto sull’immobile: il cerchio si chiude ed i prezzi schizzano alle stelle.

A questo punto ci si potrebbe chiedere: questa logica del “brand” vale anche quando un’azienda che produce o offre beni e servizi a basso contenuto tecnico/tecnologico “stabilizza” (aggiunta di valore etico oltre che di salario diretto e differito) la sua forza-lavoro (che è pur sempre una merce, secondo l’accezione del capitalista)?

La risposta è no. Mentre la gran parte della clientela, di fatto e potenziale, viene indotta a lodare la Banca (in verità, una Bancaladra) che rimette in sesto il palazzo d’epoca, un palazzinaro che porta l’altalena per i bimbetti, altrettanto non fa per quel padrone che “trova il coraggio etico” per trasformare migliaia di contratti a progetto in contratti a tempo indeterminato.

Stabilizzare una forza-lavoro che opera su beni facilmente riproducibili rappresenta un costo che nessuno è disposto a pagare: non il padrone che si rivale aumentando il prezzo del prodotto; non il cliente che, questa volta fregandosene altamente del brand (uno si porta a casa un pantalone, mica il dipendente: e se posso pagarlo di meno da un’altra parte, perché devo comprarlo qui?) si rivolge altrove per avere un prodotto che abbia la stessa qualità ad un costo inferiore. Ecco perché la gente preferisce comunque comprare dai cinesi, ben sapendo che si tratta dello stesso tipo di capo su cui poi andrà messa l’etichetta “Made in Italy”.

Prendiamo il caso Atesia, che da quando a “stabilizzato” i precari (sarebbe meglio dire, da quando ha avuto il condono civile e penale dal Governo Prodi in cambio del… Contratto Collettivo Nazionale) ha smesso di essere la gallina dalle uova d’oro della famiglia Tripi. Atesia non produce beni e servizi ad alto contenuto tecnologico, né la manodopera di cui si serve ha bisogno di grossi livelli formativi. Per questo la regola del brand non si applica. Tutti i suoi competitors sono in grado di rendere lo stesso prodotto, anche ad un costo più basso. Atesia, quindi, pur avendo “stabilizzato”, non gode di nessun vantaggio di immagine. Anzi, agli occhi dei committenti, è esattamente il contrario: è un’azienda da evitare!!!

La famiglia Tripi, ormai da due anni, si lagna delle perdite subite per colpa del “dumping” prodotto di una concorrenza “scorretta”. Che il bue chiami cornuto l’asino è davvero il colmo. Che ci si imbrodi definendosi azienda “virtuosa”, quando virtuoso è stato un comportamento stabilizzante indotto da una pronuncia dell’Ispettorato del Lavoro che inchiodava, tra le altre cose, l’Amministratore Delegato all’art.640 bis del C.P. (truffa), ci pare eccessivo. Che vi sia un dumping è invece vero, anche se non è la sola causa delle perdite presunte di Atesia.

Ma il dumping c’è perché c’è la legge (Legge 276/2003) che lo consente; perché l’ex Ministro Cesare Damiano, nel momento di avviare il procedimento di salvataggio a favore dell’amico Tripi, non ha provveduto ad equiparare il lavoro outbound (che può essere anche di natura contrattuale autonoma ) a quello inbound (sempre e soltanto subordinato per via della Circolare n.17 del 14 Giugno 2006); perché il Ministro Sacconi, con una nuova Circolare di pochi giorni fa, irrobustisce la posizione delle aziende che sfruttano manodopera precaria [viene considerato autonomo il lavoratore atipico che lavora presso l’azienda, con gli strumenti dell’azienda, con il software dell’azienda, nelle griglie orarie stabilite dall’azienda, ndr].

Dunque, le responsabilità dei vari interpreti (di centrosinistra e centrodestra ) del capitalismo a non volere risolvere il problema precarietà (che si riverbera in “concorrenza sleale” verso le aziende, si fa per dire, “virtuose”) è fuori dubbio.

Rimane, al padrone, un’ultima strada per annullare il dumping: destrutturare il contratto collettivo nazionale.

Arrivarci, per Confindustria ed i suoi accoliti non è comunque cosa da poco. La strada per i contratti individuali, sebbene il movimento sindacale e politico di sinistra sia sfilacciato, è irta di ostacoli di ogni sorta. Meglio allora l’inserimento di più agili clausole flessibilizzanti: ecco allora la multiperiodalità ,inserita nell’ipotesi d’accordo (quasi ratificata e valida per tutto il gruppo Almaviva Contact) firmato insieme a Cgil-Cisl-Uil il 1 Dicembre 2008.

Eppure non può essere soltanto una questione di dumping. C’è sicuramente dell’altro. Il padrone non nasce per stabilizzare ma per destabilizzare forza-lavoro (più si destabilizza la forza-lavoro, fino al limite minimo della sopravvivenza autoriproduttiva, più si produce plusvalore) : è assolutamente contronatura capitalistica che, vigendo norme precarizzanti, si perda tempo con lavoratrici e lavoratori che costano tre volte tanto.

Questo per dire che Atesia ha tutto l’interesse, a tutela della sua immagine di azienda che offre servizi a costi concorrenziali, a ritornare nello stato precedente la “stabilizzazione”. I modi per farlo ci sono. Ne elenchiamo uno solo: la volontà industriale di far scadere la qualità generale del lavoro (si lavora su commesse importanti con pochissime ore di addestramento pro capite).

Così facendo l’azienda induce il committente a rescindere il contratto. A rescissione avvenuta corrisponde una sovrabbondanza di forza-lavoro che, a catena, produce costi non sostenibili, incremento delle richieste economiche dell’azienda in fase di partecipazione alle gare di Appalto, fenomeno del dumping e perdita delle gare, ulteriore sovrabbondanza, ed il ciclo ricomincia.

A tutto questo quadretto si aggiunga la crisi (che nasce sempre come crisi di sovrapproduzione) non più smaltibile dall’indebitamento dei NINJA né dalle guerre imperialistiche e si riverbera nel reale producendo un salasso ai danni di milioni di lavoratrici e lavoratori licenziati: solo in Italia, Telecom ha dichiarato 9000 esuberi. In una situazione del genere, il ritiro di buona parte delle commesse esternalizzate TIM a chi ha un costo del lavoro più alto anche del 14% (brand negativo, in questo caso) rispetto ai “competitors” , è una cosa da dare per ovvia. La vicenda Atesia, quindi, appare sempre più nera ed il ricorso alla cassa integrazione, da qui a qualche mese, probabile.

A questo proposito, vale la pena ricordare che la cassa integrazione, se ci sarà, sarà soltanto figurativa in quanto le disponibilità non coprono tutte le richieste e, comunque, il settore Telecomunicazioni è in coda alla lista dei richiedenti.

Comunque sia, un’unica certezza: pare evidente che il padrone, se stabilizza o se è obbligato a farlo, lo fa con il lutto al braccio!

Lo stesso Berlusconi suole affermare che, in questi casi, “gli sembra di sposare l’operaio/a”.

Ed i padroni sono tutti d’accordo con lui: è di gran lunga preferibile l’atto amoroso e non impegnativo con smargiasse donnine bon-bon che il pesante letto coniugale. Sia chiaro: purchè la Domenica si vada a Messa e si reciti il mea culpa!

Francesco Fumarola, 13 Dicembre 2008