Lettera di Don Roberto Sardelli per un nuovo corso della politica

Data di pubblicazione: 
Tuesday 01 December 2009
Tags: 

Don Roberto Sardelli Riceviamo e pubblichiamo con gran piacere la seguente lettera inviataci da don Roberto Sardelli (quale bozza-documento).

Quello che si è chiuso è stato un anno molto convulso. Con la pubblicazione di due documenti, il primo “Per continuare a non tacere” del gruppo “Non Tacere” (2007), e il secondo “Per un nuovo percorso della Politica”, elaborato dal medesimo gruppo in collaborazione con il “Modello Roma” (2009), s’era sperato che si potesse aprire uno spiraglio di dibattito, ma invano.

Ora non è più il tempo di dare risposte individuali o provenienti da singole sigle, anche partitiche, agli interrogativi gravi che ci poniamo, e se gli interrogativi hanno la vastità di un coro, anche la risposta deve essere la più corale possibile.
Non mi illudo sulle difficoltà, e se queste dovessero trasformarsi in impossibilità, ciascuno di noi, ne sono certo, non resterà con le braccia penzoloni, ma continuerà il suo impegno quotidiano teso nella speranza che “l’alba è più vicina quando la notte è più fonda”. Forse dobbiamo ancora scendere di qualche gradino, e la “pedagogia della catastrofe” ci può riservare la novità di un risveglio.

Il nostro futuro politico non è predeterminato da nessuna “segreteria”, ma è nelle nostre mani.
Una diversità aperta ci arricchisce.
Una diversità chiusa in se stessa è un obitorio.
Ringrazio in anticipo tutti coloro che, dopo aver letto questa bozza-documento, mi faranno conoscere le loro valutazioni tramite la mia e-mail: robertosardelli@gmail.com.

PRIMA PARTE

1 – Le ragioni di un crollo

La crisi che stiamo attraversando ha una delle sue cause immediate nella decomposizione del quadro politico. Qui ci si potrebbe domandare che cosa ha generato una tale decomposizione, ma ora mi fermo a constatare che lo sfilacciamento, il più grave in 60 anni di vita della Repubblica, non concerne solo i contenuti e le scelte della Politica, ma anche il metodo che non offre più alla partecipazione dei cittadini quelle garanzie di cui necessita per potersi attuare: il canale democratico è stato ostruito.
Vorrei insistere sul “metodo” poiché la democrazia stessa è un “metodo” di governo.

Riguardo ai contenuti, bisogna che essi nascano, si chiariscano e siano il risultato finale di un grande lavoro condotto con la base più sensibile del paese. Parlo dell’apertura di un cantiere culturale, di una fucina in cui i bisogni, i diritti, le competenze, le creatività, le proposte, i progetti, le ricerche si possano liberamente confrontare.

Quando una casa è crollata, e la casa-sinistra-partito è miseramente crollata, il buon padre di famiglia convoca tutti i suoi abitanti perché ciascuno si assuma le sue responsabilità nel ricostruirla.
E’ da questo lavoro che devono emergere nuove figure che non siano quelle portatrici della gestione fallimentare, di storie elaborate da un personale politico di segreterie ormai decotte. C’è da discutere di tutto perché tutto è andato in frantumi nel giro di pochi anni.

Un ricco patrimonio di scelte, di lotte, di idee, di progetti, di analisi è stato dissipato. Certo, in queste storie, accanto a pagine vive c’erano anche pagine oscure, ma anziché liberarsi solo di queste ci si liberò di tutto come di un ingombro.
Sono convinto che gli autori di questa iconoclastia non fossero all’altezza culturale che l’operazione richiedeva, ma fossero guidati dallo spirito dell’autoaffermazione di sé. Anche coloro che, presi dalla nostalgia e dalla paura di uscire in campo aperto, si chiusero in una patetica difesa del “fu”, non seppero cogliere l’istanza del nuovo inevitabile. Insieme non furono capaci di discernimento e di mettersi nella condizione di ascoltatori di una realtà in movimento.

Certamente un tale lavoro avrebbe avuto un costo in termini elettorali, ma si sarebbero gettate le basi per una ripresa più vigorosa e tale da non cadere in ginocchio.
Ci sbalordisce il fatto che gli autori di questa sciagura continuino a giocare in campo!
Insomma ci si liberò dell’utopia realizzabile ignari che questa era in attesa della mediazione politica per diventare operante nella storia e nella società, e per dare inizio ad una sperimentazione nuova in cui dovevano giocare tradizioni politiche, culture e storie diverse, ma unite da una medesima sensibilità sociale legata al movimento dei lavoratori, alle fasce più fragili della società, al chiaro sviluppo di una politica di pace, alla salvaguardia del bene comune e pubblico, ai valori della giustizia e dell’uguaglianza, al rispetto delle diversità.

Un pragmatismo d’accatto è dilagato in ogni direzione, e si è fatto avanti un personale altezzoso, criptico, autoreferenziale e  cooptato, individualista.
Si tacque sul fatto che il crollo della Politica manifestava il progressivo e inarrestabile tramonto dell’etica pubblica sostituita da un’etica privatistica propria della conservazione, e nella cui rete si è impigliata anche la “sinistra” partitica. In questa situazione anche l’associazionismo di base, di tutti i colori, per sopravvivere, si è ritagliato un suo spazio e anziché impegnarsi perché il “pubblico” funzionasse come di dovere, ha lottato per proporne e perpetuarne la privatizzazione.

La confusione è grande. Non è che ci sia stata un’epoca in cui non ci sia stata la corruzione. Ovunque c’è il potere ivi si annida la corruzione. Ma ora, accanto alla degenerazione etica di proporzioni devastanti, non c’è più il raccapriccio, c’è l’assuefazione. Rassegnati  allarghiamo le braccia. E questo è il disastro più grave che il ceto politico persistente ed omologato si rifiuta di mettere a fuoco o ne parla tra le labbra per dire e non dire, in modo che nessuno intenda. Ormai la Politica non si nutre più di visioni della società, ma di battute che sono la caratteristica dei furbi. L’intelligenza ne paga le spese.

2 – Rintracciare le radici

La dissipazione inopinata non è avvenuta solo sotto i colpi di politici divorziati dalla base e fecondati in vitro, non solo per colpa di quei poteri della reazione e della conservazione che hanno svolto magnificamente il loro compito di seminare zizzania nel campo sociale, ma anche perché non s’è saputo “aggiornare” quel patrimonio di attese per inserirne il  potenziale critico, la sua memoria “ pericolosa” nelle situazioni nuove che andavano delineandosi.

Tutto è avvenuto a colpi di scena. Non s’è avviato nessun dibattito di base che avesse la possibilità di incidere sulla decisione.
I grandi trapassi della storia sono sempre contrassegnati da un simile lavoro per non cadere nell’improvvisazione.

La Politica deve ritornare a nutrirsi della memoria che, per una Politica di sinistra, significa il recupero e l’aggiornamento di un passato, di una radice che la mette al riparo da tentazioni intellettualistiche alienanti e diffuse. Occorre ricollocarsi nel solco della sofferenza sociale, degli oppressi e degli emarginati che non cessano di essere tali sol perché il “capitale” ha steso su di loro la coltre dei consumi. E’ il rinnovamento di questa memoria che dà vigore ai sopiti processi di liberazione.

Essa incalza e mette in questione il sistema presente che accarezza il ventre per distruggere la coscienza. “La memoria richiama il terrore e la speranza dei tempi passati”(H.Marcuse), ed è per questo motivo che la cultura attuale è una cultura amnestica che si brucia tutta sul presente, non attinge al passato delle vittime e si rende incapace di scrutare il futuro.

3 – Dallo smarrimento la frantumazione

Ad un vero rinnovamento interessano poco o nulla i falsi adattamenti alla modernità che ci portano a seppellire nell’ossario le sofferenze e le speranze del passato. Separare l’oggi, identificandolo con l’effimero, dallo ieri, è stato uno dei più gravi errori della cultura e della Politica. Ora, il disastro non si ripara con le proclamazioni altisonanti o con studiate scenografie o facendo largo uso di vinavil. Occorre passare da un rinnovamento dichiarato a un rinnovamento vissuto.

Quello che si chiede è di superare l’anacronisticità di una forma partito elaborata per altri tempi e per altri bisogni e che oggi è inadeguata. Il numero delle persone che abbandonano la politica militante aumenta e il vuoto che lascia dietro di sé genera lo smarrimento. Dalla paura nasce la ricerca di sicurezze che si vanno a cercare nella formazione di gruppetti e gruppettini fortemente e pericolosamente identitari. La spirale della frammentazione ne è la tipica manifestazione. L’exit è possibile solo restituendo alla Politica la sua credibilità. Occorre una chiara e decisa inversione di rotta, una terapia d’urto: l’alternativa a ciò è la decomposizione sociale.

Una rinvigorita cultura anamnestica che ricollochi nella trama del presente il ruolo degli ultimi sia nelle politiche sociali e culturali che nelle politiche dei rapporti internazionali è, questa, la condizione del rinnovamento le cui modalità di attuazione vanno discusse e vagliate punto per punto dalla base onde evitare la prevaricazione delle segreterie. Le innovazioni tecnologiche ci danno la possibilità di sperimentare una nuova prassi democratica.

4 – La Politica non è gestione del potere

Venendo meno il tasso di criticità si crea e si dilata lo spazio dell’incollamento generale sulle possenti politiche della conservazione saldamente condotte  dalla destra neoliberista della globalizzazione nella cui stoppa, in misura diversa, ci siamo tutti “impicciati”. E’ prevalsa una pratica della Politica intesa come “tattica di esercizio del potere nella società, come amministrazione del potere all’interno della società, come strategia e tecnica della gestione del potere”(J.B.Metz).

Uscire da questo intreccio diventa un’impresa sempre più ardua e complicata, ed è per questo che suggeriamo un “metodo” per ritracciare “un nuovo percorso della Politica” in cui la base, la più larga possibile, coinvolta in un grande e straordinario esercizio di sovranità democratica, abbia un reale e decisivo ruolo. Oggi le rivoluzioni si fanno così, e devono prevedere una generalizzata prassi pedagogica che ci porti là dove noi decidiamo di andare e non dove vanno tutti come un gregge di pecore.

5 – Infrangere i miti della modernità

Solo con un appello e un coinvolgimento della base debitamente informata, sarà possibile iniziare un processo “istituente” di rinnovamento della Politica. Il solo dichiararlo non è sufficiente perché i miti da infrangere si sono consolidati nella società moderna, e la stessa sinistra partitica ne è stata contagiata e stravolta. Basta osservare coloro che si sono impossessati della sua storia manipolandola per percorsi di bieco tatticismo tipico delle segreterie avulse dalla realtà.

Parlo del mito indiscusso della fattibilità che pretende di chiudere la strada ad ogni dialettica, di dileggiare ogni proposta la cui fattibilità è determinata dai poteri forti capaci di irridere alle aspirazioni che ledono i loro programmi. Parlo del mito di stendere pietosamente una coperta sulla virtù di dare se stessi per la causa dell’ “altro” e su ogni iniziativa che non abbia un tornaconto mercificato.

La cultura della gratuità vive in solitudine. Parlo del mito dello sviluppo occidentale, della crescita continua che ci pone perennemente alla cima sotto la quale le altre civiltà, le altre religioni, le altre etnie, le altre identità sono giudicate sottosviluppate. Ogni azione tendente ad infrangere questi miti incontrerà resistenze inaudite per cui l’impegno e il sostegno della base sarà sempre più necessario.

D’altra parte rinunciare al progetto ci collocherebbe nel consueto e quindi ci priverebbe della nostra ragion d’essere, getterebbe la società nella stasi cadaverica i cui segni sono già presenti tra di noi. Alcuni parlano di una “società necrofila”(E:Fromm).
La complessità non è un motivo per fermarsi, ma una sfida.
A domande eccezionali si risponde con proposte eccezionali.

6 – Triste constatazione

Un simile discorso, la sinistra partitica a livello delle segreterie, non vuole nemmeno prenderlo in considerazione: gli apparati non solo sono duri a morire, ma anche ad ammettere un loro ridimensionamento. Invece, la base, quella dentro e fuori di quegli stessi partiti, vi si riconosce perché il bisogno di uscire dall’utero con un movimento  significato dalla  discontinuità, è sentito, generale ed unanime.

Ci sarà il tempo della resipiscenza?
In realtà, i partiti catturati dalla paura di scomparire, tentano e tenteranno una riaggregazione qualsiasi. Ma una politica condotta sull’onda montante della paura non ha futuro, è una riaggregazione puramente meccanica, da cartello elettorale, non sarà in grado né di coinvolgere né di interpretare i bisogni, i diritti, le speranze della società. Il gioco a frazionarsi della “sinistra” partitica è l’indice che in essa si è smarrita la coscienza del grande compito che le tocca nello svolgimento della storia.

E’ qui che si pone il problema di ritornare a ritemprarsi nel contesto da cui ha mosso i primi passi organizzativi.  La riaggregazione dei rottami, prima di essere patetica, è vana.
Ma questa posizione non vuole essere ideologicamente antipartitica, ma pre-partitica per rintracciare in questa fase tutti quei valori smarriti e organizzarli in una proposta percorribile.

Semplicemente, non si vuole essere  testimoni silenziosi di un riciclaggio di formule, di persone, di modi, di schemi che del passato hanno ereditato la parte peggiore. Comunque si resta attenti ad ogni segno di saggezza politica  in cui si possa pensare a percorsi intermedi per raggiungere lo scopo finale. L’intermediatezza, però, non va lasciata nelle mani delle segreterie, bensì va ben studiata, circoscritta e controllata in ogni sua fase di svolgimento.

7 – Limiti e virtù dell’associazionismo di base

L’associazionismo di base, più di quello che si riconosce nelle grandi organizzazioni del volontariato in qualche modo protetto e blindato, vive sulla propria pelle il disagio sociale, la precarietà, il limite, la criticità del momento sempre più devastante ed acuto.  Anche qui, come nella società in genere, il discorso politico, cioè di una visione più complessiva e generale, esita a prender quota.

Qui, per vari motivi, è inevitabile che, in forme progressiste, facciano capolino interessi ed egoismi individuali e di gruppo, e ciò che si voleva evitare si ripropone in rinnovate vesti.
La crisi della politica è connotata anche da questo respiro corto di coloro che avrebbero il titolo per allungarlo, ma non osano andare oltre confine timorosi di disturbare le relazioni che si sono stabilite con le istituzioni.

Si deve anche aggiungere che una prolungata cura del “particolare”, generosa ed esemplare quanto si vuole, può ingenerare abitudini impolitiche. Il pericolo riguarda soprattutto quella frequentata fascia di volontari religiosamente motivati e che si ritiene paga quando ha svolto la sua testimonianza.
Le energie ci sono, ci sono anche le esperienze e abbondano le competenze e le creatività, ma non si osa, e spesso, chi osa si porta dietro l’arroganza del primo della classe, quello spirito di protagonismo che è come un tarlo che svuota la Politica.

Il potere dominante, dobbiamo esserne convinti, non ha paura di chi lotta per la casa o per l’albero o per la bicicletta o per l’isola pedonale, ma di chi aggancia queste lotte, pur legittime e doverose, a un progetto politico complessivo, ad un altro modo di governare la società e la città. E’ quello che ci manca, e sul particolare ci si frammenta e ci si isola.

Le linee anarcoidi che spesso serpeggiano in questo settore, la suscettibilità che le anima non fanno che frenare e arrestare uno sbocco politico alternativo. Prevarica chi crede di essere tutto. Con questo spirito l’agire politico costruisce il suo sarcofago.

L’incapacità ad accedere ad una visione ampia e alta della Politica, l’attaccamento patetico al particolare, denota che nelle scelte non c’è gratuità, ma strumentalizzazione ideologica senza la quale l’impegno stesso si affloscerebbe.  Ci si comporta come quei malati che restano attaccati alla malattia perché è l’unica ancora della loro sicurezza. Per loro l’apertura dell’orizzonte è una insopportabile vertigine.

Eppure uscire è necessario ed urgente.
Molto dell’associazionismo di base, nato per svolgere una lunga serie di servizi all’individuo e alla società, a lungo andare ha “perso lo spirito che l’animava e ha finito con l’essere strumentalizzato dai poteri pubblici, dagli utenti stessi di quei servizi, dai lavoratori e dai militanti volontari” che vedono nell’iniziativa un posto di lavoro.  “Senza una profonda decolonizzazione dell’immaginario”(S.Latouche) queste imprese, senza accorgersene, rischiano di ricadere nella logica mercantile. Il loro clichè è ripetitivo di una logica di mercato priva di una pedagogia liberante e di spinte per una società alternativa.

SECONDA PARTE

1 – La Questione religiosa

Oggi, alla questione cattolica, che nel nostro paese assume particolare rilievo,  si aggiunge la questione religiosa che va oltre lo stesso cattolicesimo  e  cristianesimo. Tali problematiche sono state eliminate dall’agenda della “sinistra”.  E’ ora di capire che la realtà, tutta la realtà non può essere più compresa negli angusti schemi ottocenteschi o in iniziative estemporanee e strumentali che non lasciano alcuna traccia nell’agire politico. In un mondo globalizzato tutto e tutti sono sottoposti a domande fino a ieri inimmaginabili e che denotano la profondità e la vastità del cambiamento. Questo vale per i credenti come per i “laici”.

L’atteggiamento di  autosufficienza di molte persone e gruppi della “sinistra” sta a significare che il clericalismo non è una patologia esclusiva del mondo religioso, ma è dilagata anche nel mondo che “esce dalla religione” e che si porta dietro gli antichi vizi con i suoi chierichetti ed i suoi bigotti. Alimentati dalla supponenza si resta inchiodati ad un’acritica lettura del “das Opium…” .

Si, dobbiamo ammetterlo, spesso la comunità dei credenti e le sue gerarchie sono state oppio anziché sentinelle davanti ai grandi movimenti della storia, ma oggi la stessa teologia non si chiede più “Chi è Dio?”, ma “Dove è Dio?”, e così la religione cessa di essere oppio “per diventare speranza di giustizia e di liberazione integrale”. Solo un’arretratezza culturale molto datata  ci permette di identificare il cattolicesimo e il cristianesimo stesso con il Vaticano, si ignora o si vuole ignorare ciò che il popolo cristiano  elabora nella sua ricerca teologica e testimoniale che, tra lo scorcio del secolo XX e inizio del secolo XXI,  rappresenta la vera grande novità che la base ecclesiale va ripetutamente proponendo.

Il silenzio e l’ignoranza sembrano unire i vertici e gli intellettuali progressisti più usi ad aggiornare dottrine ed ideologie che a capire e a  mettersi  in ascolto di ciò che sta avvenendo alla base. Questa, d’altra parte, è profondamente sofferente e smarrita. Nel giro di 40 anni  è passata dagli entusiasmi dell’ “aggiornamento” conciliare ai progetti e ai tentativi di ricostantinizzazione della chiesa.

Gravi responsabilità ricadono sulla gerarchia: in un momento in cui bisognava prendere il largo, il suo sguardo si è rivolto all’indietro, alla nostalgia, e dalla cassapanca trae il vecchio armamentario fatto di regole, di leggi e di dottrine. La paura è tornata a paralizzare la vita ecclesiale da decenni, il dibattito è stato ucciso e sostituito con un’offensiva cartacea e mediatica che ha pochi precedenti.

I Preti Operai, don Mazzolari, don Milani, Padre Balducci, il volontariato, la “Nuova Teologia Politica”, la Teologia della liberazione, il tramonto della sacramentalizzazione di massa, le nuove proposte per una lettura storicizzata della Bibbia, le varie espressioni referendarie della volontà e delle scelte di base, la ricerca e le testimonianze stanno lì a dimostrare una capacità ed una ricchezza fino a ieri impensabile.

Ma dobbiamo anche notare con tristezza che, se da una parte si prende notarilmente atto di un tale apporto, questo di ferma a livello epidermico e si rifiuta di conoscerne le motivazioni e gli argomenti. Insomma ci si accontenta di quello che superficialmente ci fa comodo e ci si ferma alla valutazione in termini di consenso elettorale. Tutto questo è opportunismo non esercizio dell’intelligenza, e il dialogo viene impoverito e strozzato.

Il filtro di una nuova coscienza critica di partecipazione alla vita ecclesiale non è infatti circoscrivibile nello spazio delle sacre camarille, ma fatti che si proiettano nella realtà civile, fatti che hanno una profonda valenza nella cultura di questo paese. Certo, La comunità dei credenti, e dico ciò per tutti, non è e non sarà mai una comunità addomesticata e addomesticabile. Essendo una comunità che per il suo operare e pensare attinge alla sua “riserva profetica”, si inserisce nella storia, ne osserva lo svolgimento con gli occhi di Dio, di un Dio, quello di Gesù, che non pone il suo scranno tra gli scranni dei potenti, ma nel bel mezzo di coloro che subiscono il sopruso.

La forza liberatrice si esercita con loro e solo con loro (Mc.10,42). Alla Politica il compito di tradurre nei suoi termini la visione.
La comunità dei credenti è una comunità scomoda e della sua “inquietudine” tutti, compresa la Politica, possono arricchirsi poiché è un dono totalmente gratuito, non soggetto ai calcoli delle diplomazie, degli interessi costituiti e degli astuti di ogni risma.

La società italiana è attraversata da questi fermenti, ignorarli significa allearsi con coloro che disegnano di farli tacere. E di costoro ce ne sono a destra, a sinistra , al centro e nella stessa chiesa, nelle sue gerarchie.
“Un nuovo percorso della Politica” non può rifiutarsi ad un simile approfondimento conoscitivo. La realtà  è composita e ricca, e la Politica o è versatile o è gretta.

L’ “I care” non è uno slogan elettorale, ma una profonda attitudine dell’animo umano: lasciata a se stessa, isterilisce.
Questo è il male della nostra epoca: il bambino che nasce con il “perché?” sulle  labbra, man mano che cresce la società materialista che lo circonda, lo spegne.

2 – Tendere a….  .

I cristiani sanno che l’attesa escatologica non è qualcosa che irrompe dal cielo come un meteorite apocalittico, ma si nutre, si costruisce nei limiti che la storia ci pone. La fede nella realtà finale ed ultima, aggiunge e non toglie nulla alla fatica dell’uomo. Essa non è un’evasione dal tempo che nella sua spinta evolutiva porta in sé il segno della “finitude”. La fede, “come in uno specchio”, mette in evidenza l’autenticità e la solidità della tensione umana, del “tendere a…..”.

Contro ogni tendenza spiritualista o mistica dell’evasione, la fede nello sbocco finale si snoda in due tappe ambedue costitutivamente unite e attraversate dall’istanza biblica sintetizzata in ciascun versetto di Mt.25,31-46, di Lc.1,46-56 e di Lc.6,20-26.

Qui non si tratta di un’esemplarità individuale, non si tratta di organizzare le buone intenzioni pur lodevoli, ma di compiere un salto nella dimensione politica per produrre nella storia una realtà nuova, aperta, per i credenti, all’attesa di una realtà definitiva e stabile, di una realtà che lo scorrimento della storia non può dare e che, quando pretende di dare, inganna l’uomo e ne frustra l’incessante “tendere a…”. Di fallimenti di una tale pretesa il secolo passato e il presente ne portano i segni più cruenti.
I cristiani sanno molto bene che se non sono all’altezza del loro compito storico sono responsabili dell’acuirsi della tragedia umana e cosmica.

Alla luce di questa visione, una Politica che si chiude nel “tempo”, che comunque resta il suo campo specifico, si priva delle chiavi interpretative più intime e profonde dell’esistenza. Non si chiede alla Politica di confessare una fede, sarebbe un ritorno ai secoli bui, ma di conoscere e prestare attenzione allo squillo della  “sentinella”.

3 – Politica e Religione

Oggi più di ieri occorre avere una visione meno clericale dei rapporti tra la Politica e la Religione.
Osserva il Metz: “I processi che vengono oggi discussi col termine globalizzazione, sembrano procedere innanzitutto a scapito della democrazia e del moderno stato sociale e di diritto; questa globalizzazione (dei mercati) può condurre, infine, ad una globale crisi sociale, non più controllabile democraticamente ed in cui la Politica perde (definitivamente) il suo primato sull’economia”. Davanti a noi non c’è solo il pericolo di un fondamentalismo religioso, ma anche di un fondamentalismo di mercato che si colora sempre di più di “analfabetismo democratico”.

Allora, come fa il Metz stesso, pongo queste domande: La Religione – in vista dei pronosticati conflitti civili e culturali – rientrerà di nuovo nella politica mondiale e degli stati? Diventerà la Religione addirittura il sostituto di una politica giunta al suo esaurimento, di una Politica che nel frattempo è diventata ostaggio dell’economia e della tecnica? Che ruolo ha la Religione nella fondazione dei fondamentalismi politici? Il dibattito si apre su tutti e due i fronti, sia su quella della Politica che quello della Religione, e ostentare l’ignoranza o la supponenza, tirarsene fuori, non mi sembra l’atteggiamento migliore per capire ciò che già oggi ci coinvolge, non si intercetta quella coscienza credente che unisce intimamente l’ “Ultimo” agli ultimi.

Se fino ad oggi, nonostante i venti della modernità, si è costruito sulle ideologie in cui la Religione e la Politica si sono chiuse connivendo o osteggiandosi, la novità che si va delineando e che costituisce il percorso nuovo, è la storicizzazione del “sofferente” la cui memoria dinamica e dialettica rende non rinviabile il “tendere a…”, apre più di ieri all’ alternativa umanizzante.

Tra le religioni, possiamo dire,  il cristianesimo, ricondotto alla fonte biblica, non è un dolcificante né un’evasione, ma entra nella “terra” e prende su di sé tutto il salvabile della storia. La prospettiva urge e ci inquieta, ma dobbiamo capire che le vecchie ricette ( fortemente ideologizzate) non sono più in grado di produrre risposte adeguate. D’altra parte l’ “uscita dalla religione”, nella nostra epoca, si accompagna all’uscita dalla politica, e al loro posto si instaurano le oligarchie dell’economia e della tecnologia.

Nella nostra sensibilità culturale, non parlo di fede, dobbiamo tener presente che l’ “uscita dalla Religione e dalla Politica” non significa la scomparsa di queste dimensioni dalla vita dell’uomo, ma il loro recupero in chiave fondamentalista e nazionalista. Ciò che con la Religione e la Politica volevamo evitare ce lo troviamo riproposto in una interpretazione peggiorata e allarmante. Dal “das Opium” al “Gott mit uns”, un capolavoro dell’intellighenzia e, oggi, del mercato globale.
Sia nella Religione che nella Politica c’è un filo rosso che le unisce ed è il filo della “Profezia” che ci porta ad aprire gli occhi sulla condizione della “terra” come condizione tesa alla liberazione, e sull’uomo che, coinvolto, ne agevola il parto.

TERZA PARTE

1 – Il crollo strutturale della fiducia

Se il rapporto con i partiti è reso difficile al punto che noi possiamo ritenere chiusa la loro fase così come si è configurata negli ultimi anni, non così è il rapporto con le istituzioni politiche, rappresentative e culturali. Anche queste, certamente, risentono della crisi, ma il loro tracollo non è strutturale bensì  gestionale, funzionale. Pensiamo alla scuola, alla giustizia, ai consigli comunali e municipali, al parlamento stesso, a tutte le assemblee elettive che devono essere restituite alla Politica e sottratte alla furbizia che le paralizza.

La loro gestione pesantemente partitica, blocca la loro funzionalità.  L’eccesso della stessa burocratizzazione non viene rimosso perché è un’area di parcheggio di un personale occupante di natura clientelare protetto da leggi e regolamenti in chiaro conflitto di interessi. Il cittadino ne resta soffocato nei suoi diritti.

2 – Passaggi preliminari

I partiti, come indica la stessa parola, gestiscono legittimamente una parte del consenso, e, quando accedono al governo della società, dovrebbero mettere da parte questo limite e governare nell’interesse dell’intera comunità civile. La prassi che si è stabilita ci segnala, invece, che si fa avanti la “dittatura della maggioranza”.

La distinzione tra istituzioni e partiti deve essere la più marcata possibile. Nessun rapporto di dipendenza reciproca può essere tollerato. La confusione ferisce a morte la democrazia, degrada la cultura, rende la Politica luogo delle clientele, e i partiti cessano di essere spazi di elaborazione politica di idee e di progetti per diventare acuminati coltelli per la spartizione della torta del potere.

E’ uno dei mali che rende sempre più vulnerabile la nostra già fragile democrazia sostenuta da una forte architettura costituzionale uscita dalla resistenza, ma ferita a morte da una prassi corrosiva. Così la società civile viene a dividersi in un momento in cui tutti dovrebbero sentirsi garantiti nei loro diritti.
Chi si sente sereno solo quando le istituzioni sono occupate da eletti del proprio partito, privatizza le istituzioni e ne annulla la funzione sociale. Guarire il nostro paese da questo male è uno dei compiti di chiunque crede nel ruolo storico della “sinistra”.

Il partito non è l’unica forma di rappresentanza, altre se ne possono mettere allo studio, ma tutte devono rispondere ad un’esigenza: quella di tenere nel massimo conto l’autorità morale e il ruolo di coloro che soffrono per l’assenza della giustizia. L’impotenza di costoro, “che sono nella società come se non ci fossero”, lede il diritto di cittadinanza, una delle più grandi conquiste del pensiero occidentale, e quindi non è tollerabile in una democrazia moderna.

Nella situazione italiana la prevaricazione e l’invadenza dei partiti nella vita pubblica è stata la nota costante e devastante. I partiti stessi, attori di una tale consuetudine, non sono stati in grado di accorgersi di questa strisciante deviazione che era, allo stesso tempo, causa ed effetto del loro declino etico.

A dire il vero, ci sono stati momenti di avvertimento. Uno di questi momenti è stato il processo di “Mani pulite”, ma è passato, e non se n’è fatto nulla. Ora essi  continuano a sopravvivere, ma accartocciati su se stessi:  solo un deciso colpo di macete, un colpo di discontinuità, potrebbe consentirci di pensare a nuove forme di rappresentanza. I partiti, preoccupati della loro stessa sopravvivenza, non sono più funzionali alla società e per questo turbano, anziché agevolare, la vita democratica.

Perché il “nuovo percorso della Politica” sia possibile e fattibile, occorre compiere alcuni passaggi preliminari senza i quali qualsiasi discorso sulla forma di rappresentanza o sulla riaggregazione è puramente teorico, non interessa e non appassiona il cittadino perché questi lo ritengono strumentale allo “status quo” e quindi incredibile. Quando, poi, lo vedono condotto da un ceto che è il primo responsabile del declino, le perplessità aumentano a dismisura.
Tali passaggi preliminari sono condizionati alla radice, proprio dalla mancanza di credibilità di chi li organizza e pretende di presiederli.

Un qualsiasi processo politico, privato della credibilità è destinato ad abortire. Ora, la credibilità non è un valore di passaggio, ma strutturale alla Politica. I partiti ormai in disarmo, e questa è una delle loro analisi più errate, parlano di un tempo di transizione e si danno da fare per farvi fronte e superarlo. Ma questo tipo di analisi è fragile, si sa di luogo comune perché tutti i tempi sono di transizione. Essi vogliono dir tutto per non dire nulla e così procedere all’opera del rattoppamento. Il consenso popolare che nel tempo si è riconosciuto nel movimento della “sinistra” ha in grande considerazione un tale valore, e ne è esigente al massimo grado.

Gli uomini, le donne, i giovani, provenienti da esperienze culturali e religiose diverse, optando per la “sinistra” vi hanno anche trasfuso la parte migliore della loro testimonianza , delle loro riflessioni e delle loro attese. Prima delle loro esigenze  organizzative e  partitiche, c’erano quelle etiche senza le quali nessuna società umana può vivere. Prima delle motivazioni di carattere strategico c’erano quelle culturali, di un forte e chiaro “stare dalla parte degli ultimi”, del lavoro dipendente e del lavoro che non c’è, degli emarginati, dei processi di emancipazione e del riscatto sociale.

Un movimento che, cammin facendo, si priva del senso della “finitude” sociale e si mette a gareggiare con il conservatorismo dei “sazi” rincorrendoli sul loro terreno, che non riesce a dare un senso liberatorio al mondo della privazione, della sofferenza, della lotta e del sacrificio di coloro che morirono e muoiono per la giustizia, porta acqua al mulino di una società che giornalmente perde la sua libertà e va a cercarla nell’edonismo dei consumi e nella baldoria delle “sagre”.

E’ vero, viviamo in un momento in cui anche gli “ultimi” nei nostri paesi aspirano a proiettare di se stessi un’immagine di “primi”, “ i ricchi la celebrano, i poveri vi aspirano”. Da un “occulto persuasore” sono stati convinti a chiudere gli occhi. La modernizzazione tecnologica manovrata dalla globalizzazione capitalista, ha colonizzato i nostri cervelli. Guidata dalla volontà di potenza sulla natura e sugli uomini è riuscita a chiudere tutto nel concetto-guscio della mercificazione.

E’ così che il potere omologante impone i suoi parametri, e noi lì, dissennati a rincorrerli non rendendoci conto che il capitale, mentre noi ci affanniamo a rincorrerne le meraviglie, sposta gli obiettivi sempre più in avanti, e noi sempre lì, con la lingua in gola…. .
Le masse, schiacciate davanti al quadro televisivo, sono immerse in una società che si vetrinizza sempre di più. Non è facile aprire gli occhi davanti alle nuove alienazioni che, in virtù della loro subliminalità, erodono la coscienza.

La decolonizzazione di un tale costrutto è opera disseminata di difficoltà perché occorre far capire che la fonte della felicità non è nel “vitello d’oro” o nel PIL che cresce, ma in una vita qualitativamente alternativa, fatta di sobrietà, di relazioni solidali, di giustizia, di tensioni all’uguaglianza, di pari opportunità per tutti, di valori che ci permettono di “non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi”. Questi sono i paradigmi etici universali che le culture e la Politica hanno il compito di tradurre nella quotidianità della vita. Una felicità che si nutre di PIL è una felicità omicida e suicida perché dietro la sua corsa lascia un mondo derelitto e un “interno” umano devastato. Ne stiamo già pagando il costo.

Ripristinare il ruolo pedagogico della Politica è uno degli impegni più urgenti e, purtroppo, meno sentiti, ed è in atto una pericolosa corsa al ribasso etico. Per invertire la rotta la Politica deve giocare tutte le sue possibilità sui tempi lunghi. Il tempo breve, dal quale non dobbiamo assentarci, deve essere rigorosamente propedeutico, controllato e finalizzato alla ricostruzione dopo la devastazione.
Lo spettacolg dello smarrimento è sotto i nostri occhi.

Se li apriamo un grande campo di impegno si presenta davanti a noi. Nelle nostre città e nel nostro occidente, il declino non è tanto segnato dalla privazione quanto dallo smarrimento morale e culturale, dal tramonto di quella “memoria pericolosa e sovversiva” che, unica, ci ricollega “al terrore e alla speranza dei tempi passati” (Marcuse).

3 – Esigenza di senso

In realtà ci troviamo in un momento di radicale rivolgimento in cui la cultura, l’economia, la scienza, l’ambiente e la stessa religione devono ripensarsi. Le vecchie identità e i vecchi assetti sono al tramonto e occorre costruirne di nuovi, di  più “deboli” possibili perché elastici, duttili e disponibili a dare quanto a ricevere. Anche la borghesia e i ceti medi che la popolano, un tempo depositari di visioni progressiste, divisi tra la paura, le esasperazioni individualiste e gli slanci di beneficenza, vanno prendendo coscienza che non possono essere più “successori di se stessi”. Nella catastrofe cui andiamo incontro al suono di valzer, si nasconde una nuova istanza, una nuova coscienza umana. Le povertà e le oppressioni in aumento, gli arsenali bellici che gareggiano tra di loro, l’ambiente degradato e abbandonato nelle mani della speculazione globalizzata, il degrado qualitativo della vita in tutte le sue espressioni, non ci dicono più nulla?

Il compito della Politica si prospetta grande ed affascinante, chiede di riannodare i rapporti con la base che porta sulle sue spalle il peso di un macigno che non  permette di “alzare il capo”.
Chi volesse svuotare la Politica di questa nuova “esigenza di senso” è destinato al fallimento. Se la Politica si attesta sul consueto, la rovina è inevitabile. Ora stiamo respirando una sorte di “sospensione etica” che ammorba l’aria e frustra ogni “slancio vitale

 

RIASSUMENDO

Sono convinto che il progressivo oblio della “ memoria passionis” della “ terra” sia l’inizio di una grande sventura. Una Politica che non fa scorrere nelle sue vene la linfa anamnestica decade inevitabilmente a mestiere. E’ quello che è avvenuto. Nelle nostre città, nel nostro paese c’è una grande e gravissima questione che è all’origine di tutte le altre e che non tocca solo le istituzioni, ma anche la vita individuale e collettiva di noi tutti.

Parlo della questione morale e culturale. La Politica ne è coinvolta e travolta.
Se non si scioglie questo nodo la rovina è dietro la porta.
I partiti, le realtà e il consenso che si organizzano intorno alla “destra” italiana non possono nemmeno porsi il problema perché li vede compromessi e artefici. La loro storia è questa.
I partiti della “sinistra”, affetti dalla preoccupazione di sopravvivere, ci girano attorno come in una macabra danza: infiacchiti e contagiati, come un corpo esangue, non osano. Stranamente anziché pensare a cadere in piedi, si danno da fare per cadere accosciati.

Gli intellettuali sono anch’essi nel girone dell’oblio e si crogiolano nella loro solitudine contenti di dialogare tra di loro e spesso a servizio dei poteri forti dell’economia.
Ma in questo paese esiste un “resto” che, inascoltato, ma intatto nella sua dignità e nella sua coscienza, continua a coltivare l’istanza di una grande Riforma culturale, politica e morale. Per accorgersene basta essere presenti nel campo della ricerca, della scuola, del volontariato, del lavoro, delle arti, delle esperienze, del disagio sociale. E’ un “resto”, ma è il luogo dove ancora si coltivano i “sogni”. E’ come quella falda acquifera che da tempo attende che l’opera dell’uomo la faccia emergere dal buio del sottosuolo alla luce del sole.

E’ da questo bacino che dobbiamo estrarre il materiale “per un nuovo percorso della Politica”.
Non vi sono altre fonti se non “cisterne screpolate”.
Si tratta di attivare un cantiere che invano abbiamo atteso fosse aperto da quei partiti che hanno avuto una qualche contiguità con quel bacino. Certamente chiedevamo loro di mettersi in seconda fila e di lasciare emergere lentamente un nuovissimo ceto che non fosse portatore delle responsabilità di ciò che è accaduto.

Coloro che non sono minimamente afflitti dalla logica delle scadenze elettorali, che sono diventate un vero e proprio stillicidio, sono, essi, in grado di avanzare una proposta al mondo del pensiero e del lavoro, delle arti e delle religioni, del servizio agli ultimi e della scuola, al mondo  dei politici che conservano intatto il desiderio della gratuità del loro ruolo, della sofferenza sociale e dell’angustia culturale, perché insieme ci si metta a costruire un progetto di uscita dal deserto?

 

Don Roberto Sardelli