Lo scontro tra poteri forti che si è aperto dentro e sulla maggiore banca italiana – Unicredit – presenta diversi aspetti che vanno conosciuti, decostruiti e riconnessi dentro una chiave di lettura meno strumentale di quella che si trova a disposizione sui giornali. Gli aspetti di questo scontro che ha portato all’esautoramento clamoroso – ma non del tutto inaspettabile – dell’amministratore delegato Profumo – vedono agire contemporaneamente fattori interni agli equilibri finanziari dell’Unicredit ma anche fattori politici e geopolitici.
Il malumore degli azionisti “territoriali”
Lo scontro sull’Unicredit non è avvenuto sullo sforamento della quota statutaria del 5% da parte degli investitori libici. “Pecunia non olet” soprattutto in tempi di crisi e la crisi globale ha pesato enormemente sulle sorti di questa grande banca – pubblica fino al 1992 e poi annoverabile tra le “madri” di tutte le privatizzazioni scatenatesi in quegli anni.
I dati ci dicono che con la crisi finanziaria, gli utili della Unicredit sono scesi dal picco di 6,4 miliardi del 2006 e 5,8 nel 2007 agli 1,7 miliardi del 2009.
Nella lettera con cui Unicredit annuncia ai sindacati la necessità di tagliare 7.200 posti di lavoro tra i nuovi e i vecchi previsti dalla fusione con Capitalia (i licenziamenti vengono definiti “efficientamenti”, sic!), la direzione afferma che “L’utile netto del gruppo è progressivamente sceso di circa il 75% dal 2007 a oggi, che si registra una consistente flessione sul mercato italiano sia sul versante della profittabilità sia sul versante dell’efficienza” (1).
E’ evidente che l’Unicredit – come tutte le banche – ha visto assottigliarsi i propri utili in questa fase di crisi eppure…non ha rinunciato a distribuire i dividendi ai suoi azionisti piuttosto che usare le risorse che le vengono da alcuni soci azionisti per ricapitalizzare la banca stessa. In questo sta uno dei noccioli dello scontro, soprattutto con le famose “Fondazioni bancarie”.
L’Unicredit infatti è il risultato di un processo di concentrazione bancaria che ha visto la fusione nel 1999 tra Credito Italiano e una serie di banche locali soprattutto del Nord come Rolo Banca, Cariverona, Cassa di Risparmio di Torino, Cassamarca, Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto, Cassa di Risparmio di Trieste e più recentemente, nel 2007, la fusione con Capitalia (ex Banca di Roma fusasi nel frattempo con Banco di Sicilia, Bipop, Mediocredito centrale).
Le Fondazioni infatti da tempo lamentano che i dividendi si sono assottigliati troppo e non consentono di continuare a “finanziare il territorio di riferimento delle fondazioni stesse”, in particolare le imprese e le attività degli enti locali che sono i loro referenti principali. Le fondazioni, secondo alcuni osservatori finanziari, si sono venute così a trovare strette in una morsa: “Se vorranno più credito nei loro territori dovranno rinunciare a quote ulteriori dei dividendi per consentire alle banche stesse di rafforzare il capitale, ma così otterranno ancora meno dividendi e dovranno ridurre le erogazioni, sollevando le ire di sindaci, politici e soggetti vari” (2).
Da questo punto di vista, l’amministratore delegato Profumo si è comportato come un gangster, tenendo sotto pressione proprio quelle fondazioni bancarie che raccolgono risparmio e risorse sul territorio e li destinano alla banca conferitaria cioè Unicredit dove in questi anni sono prevalsi gli investimenti all’estero (soprattutto nell’Europa dell’Est) e dove si stanno abbattendo i vincoli sul rischio previsti dall’accordo Basilea III siglato dalle maggiori banche centrali del mondo.
L’espansione internazionale dell’Unicredit, non ha evitato di creare malumori nelle fondazioni bancarie che si sono viste sacrificate rispetto ai progetti globali della banca.
“Forse questo tentativo di diventare una banca internazionale aveva un po’ lasciato in ombra il territorio” sottolinea neanche troppo velatamente il presidente della Fondazione CRT di Torino, azionista con il 3,3% di Unicredit (3)
Su tutto questo incombe quella sorta di stress test complessivo derivante dalla crisi economica globale.
Profumo – il cui soprannome era Mr. Arrogance – si è preso molta libertà di manovra nei confronti dei propri soci. “Mi compro la libertà distribuendo molti soldi agli azionisti” ha affermato. Ma i tempi d’oro sembrano alle spalle perché la crisi economica ha fatto precipitare i dividendi da10 centesimi per azione del 2000 ai 26 centesimi del 2006 agli 0,03 centesimi del 2009. Gli azionisti storici dell’Unicredit, negli ultimi tre anni hanno dovuto metter spesso mano al portafoglio per rimpolpare il patrimonio della banca. Profumo, forse ignaro dell’aria che tirava, ha affermato anche recentemente che “tenere il passo con i cambiamenti che ci vengono richiesti è una sfida intellettuale e manageriale e perciò mi diverto ancora a fare questo lavoro” (4). Mal gliene incolse, si può dire oggi alla luce del suo defenestramento.
Le banche e la politica
Sullo scontro interno all’Unicredit si è andato aggiungendo il fattore politico e in una doppia articolazione.
Profumo è il banchiere in “odore” di PD, era il banchiere che ha avuto sempre una relazione particolare con D’Alema e al quale tutto il centro-sinistra ha sempre guardato come uomo della modernizzazione capitalistica del sistema. E’ esemplare in tal senso un recente articolo di Luca Telese che ricostruisce questa vera e propria passione del PD (e dei DS) per i banchieri (5).
Profumo dunque era inviso a quel nuovo equilibrio nel salotto della finanza – ossia Mediobanca – dove Berlusconi – dopo tanti anni di anticamera - non era più un reietto. Secondo il quotidiano di proprietà del gruppo De Benedetti/L’Espresso (La Repubblica) Profumo sarebbe stato silurato da un asse Geronzi-Berlusconi. Ma questa tesi non dice tutto e sembra molto funzionale allo scontro ormai venticinquennale tra questo gruppo editoriale-finanziario e l’altro gruppo editoriale-finanziario (Fininvest).
Ma il “fallo da dietro” (per dirla in gergo calcistico) è arrivato molto più dalla periferia del sistema economico ed ha assunto i colori della Lega.
Vincendo le elezioni e i governatori in regioni come Veneto e Piemonte, la Lega è entrata dentro le Fondazioni Bancarie che – per statuto – devono rappresentare le istanze e gli interessi del territorio.
Due dei presidenti delle Fondazioni CariVerona e CariTorino – Paolo Biasi e Fabrizio Palenzona – sono già debitori della Lega, mentre il sindaco leghista di Verona, un personaggetto come Flavio Tosi, ha piazzato 8 consiglieri su 25 (di cui 4 di nomina diretta del sindaco) nel consiglio di amministrazione di CariVerona, una banca il cui presidente – Paolo Biasi – è stato indagato l’8 settembre dalla procura di Teramo per bancarotta.
La Lega, subito le elezioni regionali, aveva annunciato l’assalto alle banche e ai centri nevralgici del capitale finanziario proprio partendo dalla conquista delle Fondazioni. L’obiettivo della Lega era e resta antitetico a quello di Profumo: quest’ultimo ha puntato e costruito una grande banca internazionale e internazionalizzata a discapito della dimensione territoriale, la Lega punta a utilizzare le risorse delle banche per finanziare il suo popolo di piccoli imprenditori, partite IVA, amministratori locali del Nord. Se le Fondazioni hanno meno soldi a disposizione per il territorio, per dirla con Marco Travaglio, "La capacità clientelare della Lega di fare beneficenza diminuirebbe".
La punta di lancia di questa operazione è stato il sindaco leghista di Verona Flavio Tosi, una operazione pesante e sotto certi aspetti azzardata che ha irritato Tremonti (mai troppo tenero con le fondazioni) ed ha messo in imbarazzo la stessa leadership della Lega che si è trovata a gestire un terreno rognoso come quello degli equilibri nei gruppi finanziari. L’appello di Bossi a “difendere le banche italiane e l’Unicredit dai tedeschi” va esattamente nel senso contrario di quello al quale – a nostro avviso - ha sistematicamente lavorato Tosi e il molto particolare leghismo veneto. Per la Lega sono in arrivo rogne, rogne decisamente rognose.
Le speciali relazioni tra settori del leghismo veneto e gli ambienti politici e finanziari tedeschi (in particolare proprio in Baviera), sono noti da tempo. (6). Non a caso il sindaco di Verona Tosi si trovava proprio a Monaco di Baviera per incontri riservati nello stesso momento in cui a Milano facevano fuori Profumo. “Lunedì 20 settembre, poche ore prima che calasse il sipario sui quindici anni di Alessandro profumo alla guida di Unicredit, Tosi ha intrattenuto “colloqui riservati” con personalità del mondo finanziario tedesco di cui avrebbe informato in precedenza il presidente di Cariverona, Paolo Biasi, e il vicepresidente di Unicredit (designato da Verona) Luigi Castelletti” riporta una corrispondenza del quotidiano di proprietà del salotto principale della borghesia italiana, il Corriere della Sera. La stessa corrispondenza sottolinea come precisamente di Monaco di Baviera sia l’attuale presidente dell’Unicredit, Dieter Rampl, ex presidente della banca bavarese Hypovereinsbank (HVB) acquisita con una OPA proprio dall’Unicredit nel 2005. Non solo. Ad aprire il fuoco contro l’ingrossamento della quota degli investitori libici oltre il 5% dentro Unicredit, era stato proprio il giornale tedesco della Baviera “Suddeustche Zeitung”. Inutile dire che Rampl è stato proprio colui che ha sostanzialmente spinto fuori dalla porta di Unicredit Alessandro profumo (7).
Le banche tedesche non fanno sconti ai concorrenti
A pensare che dietro il defenestramento di Profumo dall’Unicredit ci sia anche e soprattutto lo zampino delle banche tedesche, si fa peccato ma quasi sicuramente ci si azzecca. Non solo Bossi ma anche il ministro Galan (uno che ha il dente avvelenato con la Lega) hanno lanciato l’allarme sul rischio “germanizzazione” delle banche italiane. (8)
I motivi anche qui sono più di uno e sconfinano dalla dimensione finanziaria per connettersi con quella geopolitica.
L’Unicredit infatti non è solo la più grande banca italiana ma è anche quella più presente nei mercati internazionali. Quest’ultimo fattore però ha un limite: quello di essersi internazionalizzata molto e soprattutto nei mercati dell’Europa dell’Est che il capitalismo tedesco considera come la propria riserva di caccia.
L’escalation dell’espansione dell’Unicredit nell’area di influenza tedesca, è stata impressionante a partire dalla metà degli anni Novanta, quando l’assalto all’Est coinvolse anche un capitalismo arretrato come quello italiano. Delocalizzazioni impetuose in Romania (do you remenber Trevisoara?), Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Albania, Russia etc. hanno visto impegnate decine di migliaia di imprese italiane, grandi, medie, piccole e perfino piccolissime, soprattutto le imprese del Nordest (9).
L’Unicredit è la banca italiana che più di tutte è stata protagonista – dal 1999 al 2007 - di questa penetrazione imperialista (si può dire così oppure è una eresia?) nella riserva di caccia delle banche tedesche.. Vediamo:
- Acquisizione del 52% della Bank Pekao in Polonia
- Acquisizione della Bulbank in Bulgaria
- Rafforzamento presenza nella Pl’nobanca in Slovacchia
- Acquisizione della Zagrebanka in Croazia
- Acquisizione della Demirbank in Romania
- Acquisizione totale della Zivnostenska nella Repubblica Ceca
- Acquisizione della Yapi Credi in Turchia
- Acquisizione della Hypovereinsbank (Germania) e Bank of Austria (poi rivenduta) nel 2005
- Acquisizioni in Ucraina, Kazachistan, Tagikistan, Kirghisistan nel 2007
L’amministratore delegato di Unicredit Alessandro Profumo si era dato come obiettivo quello di aver un bacino di 8-12 milioni di clienti nell’Europa Centro-Orientale. Parte di questa piano di espansione nell’Europa dell’Est è avvenuto in società con un altro colosso della finanza tedesco-bavarese cioè Allianz (10).
Ma con l’OPA del 2005 sulla banca tedesco-bavarese HVB, Profumo ha sfidato la finanza germanica non solo nella sua area di influenza nell’Europa dell’Est ma anche dentro casa.
Non è un mistero che oggi nell’Unione Europea si stia dando un fortissimo processo di concentrazione industriale-finanziaria intorno a pochi grandi gruppi capitalistici di dimensione europea (dalle industrie automobilistiche alle compagnie aeree) e adeguati ad agire nella competizione globale. Il sistema finanziario non potrà sottrarsi a questo processo di concentrazione – a questo servono gli accordi come Basilea III nati proprio per tutelare le banche “troppo grandi per fallire”. Unicredit insieme a Intesa-Sanpaolo hanno realizzato in Italia e intorno a questi due monopoli quel processo di concentrazione bancario da tempo richiesto dai templari della modernizzazione capitalistica. Ma se la dimensione della concentrazione va assumendo caratteristiche europee, anche Unicredit e Intesa-Sanpaolo dovranno adeguarsi alle regole del gioco, e in questo gioco le banche tedesche hanno molte più carte da giocare. Non solo. L'Italia nella sua interezza, vede convivere poteri forti e potenzialità economiche e industriali funzionali ad una centralizzazione di tipo imperialista in Europa e "zavorre" economiche e sociali sacrificabili a tutti i livelli. Su questa divaricazione di destini e collocazione internazionale si è aperta una crisi e uno scontro dentro la stessa borghesia italiana che rischia di trascinare nel gorgo anche i settori popolari. E’ iniziata una nuova partita di risiko sul piano finanziario e geopolitico e la vicenda Unicredit ci dice che sarà una partita niente affatto priva di colpi bassi.
Note:
(1) Piano di riorganizzazione generale 2010/2013 presentato da Unicredit ai sindacati in data 9 settembre 2010
(2) Affari e Finanza del 20 settembre 2010
(3) Corriereconomia del 20 settembre 2010
(4) Affari e Finanza del 13 settembre 2010
(5) Il Fatto del 22 settembre 2010
(6) Sui legami tra Lega e interessi tedeschi sono già in circolazione da anni alcuni documenti. La vocazione al “secessionismo in casa altrui” della Germania non è affatto un mistero. Su questo intendiamo preparare un lavoro specifico che è in via di elaborazione.
(7) Corriere veneto del 22 settembre
(8) Sole 24 Ore del 23 settembre 2010
(9) Su questo vedi i volumi “L’Italia s’è desta”, edizioni Laboratorio Politico 1997 e “No/made Italy” edizioni Mediaprint 1999
(10)Milano Finanza del 21 settembre 2010