Università e Ricerca: l'esempio dell'Europa

Data di pubblicazione: 
Wednesday 12 November 2008

Un'aula universitariadi Umberto Guidoni*

Per tutti, l’Europa è il trattato di Maastricht e la realizzazione della “zona €”, è Schengen e la libera circolazione dei cittadini, ma non tutti sanno che è anche il CERN, l’ESA, l’EURATOM, ovvero la ricerca scientifica di punta a livello mondiale. Tra quelli che non ne sono al corrente, c’è anche la ministra Gelmini che, invitata all’inaugurazione del nuovo acceleratore di particelle LHC presso il CERN di Ginevra, avrebbe risposto: ”ma che cosa è il CERN?”. Forse per questo l’Italia non era rappresentata a livello governativo, pur essendo fra i  paesi che più sono impegnati, sia come contributo finanziario che come partecipazione dei ricercatori.

Ma a parte il “gossip”, la mancanza di sensibilità del governo nei confronti della ricerca è sotto gli occhi di tutti e contrasta in modo stridente con le strategie europee. A livello continentale, si investe su ricerca e innovazione come elemento portante della società, come obiettivo strategico delle politiche europee: “entro il 2010 [l’UE deve] diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. E’ la strategia di Lisbona che si traduce nell’impegno a dedicare alla ricerca almeno il 3% del PIL entro il 2010.

Se questo è un obiettivo primario per l’Europa - che mediamente stanzia circa il 2% del PIL - diventa urgentissimo realizzarlo nel nostro paese che sconta un grave ritardo, sia in termini di investimenti (circa 1%), che in termini di risorse umane - la più bassa percentuale di ricercatori, nell'industria, nell'università e nei centri di ricerca (in Italia sono la metà della media EU ed appena un terzo di quella USA).

Il cosiddetto “capitale umano” sta diventando la risorsa chiave, più delle tradizionali risorse naturali. Le nuove generazioni dovranno affermarsi in un sistema basato sulla competizione a livello planetario, dove il livello delle conoscenze sarà uno degli elementi determinanti per il successo in un mondo del lavoro sempre più globalizzato.  Per questo una classe politica che guarda al futuro dovrebbe assicurare ai giovani gli strumenti culturali per essere protagonisti nel 21esimo secolo.

L’articolo 1 della carta europea dei ricercatori stabilisce che: “Gli Stati membri s’impegnino a compiere i passi necessari per assicurare che i datori di lavoro o i finanziatori dei ricercatori sviluppino e mantengano un ambiente di ricerca e una cultura di lavoro favorevoli, in cui gli individui e le équipe di ricerca siano considerati, incoraggiati e sostenuti, e beneficino del sostegno materiale e immateriale necessario per conseguire i loro obiettivi e svolgere i loro compiti. In tale contesto, si dovrebbe accordare particolare priorità all’organizzazione delle condizioni di lavoro e di formazione nella fase iniziale della carriera dei ricercatori, in quanto questa contribuisce alla scelte future e rafforza l’attrattiva delle carriere nel settore della R&S.

Come si conciliano queste esigenze con le condizioni di precarietà, spesso decennali, in cui si trova quasi il 40% dei ricercatori? Si tratta di lavoratori qualificati, che svolgono la loro attività in un sistema che li costringe in uno stato di insicurezza: il rilancio della ricerca italiana passa necessariamente per la valorizzazione di queste risorse professionali.

L’azione del governo non coglie la distanza che separa l’Università e la ricerca italiana dalle equivalenti realtà europee. La politica dei tagli esprime solo le esigenze di cassa del Tesoro. Occorre, invece, una politica che tenga conto degli effetti globali sulla società (innovazione, crescita sociale, diffusione di conoscenze) elementi che richiedono il ruolo determinante dell’investimento pubblico. E sottolineo investimento e non spesa, come oggi il governo definisce gli impegni finanziari dello stato.

La formazione e la ricerca forniscono sapere, un bene immateriale che è difficile da valutare solo in termini economici. Dobbiamo considerare anche il profondo impatto che il sapere ha sulla politica, sul dibattito delle idee, in definitiva, sulla realtà sociale di un paese.

Sui grandi temi delle scelte energetiche, dei cambiamenti climatici, delle biotecnologie, i cittadini sono chiamati a decisioni che hanno ricadute su larga scala, scelte che vanno oltre i confini del singolo paese e di una sola generazione. Una società consapevole, responsabile e solidale, una democrazia moderna, non può esistere senza un sapere diffuso. La salvaguardia del nostro pianeta, il nostro futuro e quello delle prossime generazioni è legato ad un sempre più alto livello di coscienza ma anche di conoscenza.

Via via che l’interdipendenza tra tecnologia, scienza e società si fa più profonda, con l’entrata nell’uso quotidiano di beni di consumo sofisticati e di strumenti di lavoro complessi, rischia di amplificarsi una separazione - il cosiddetto “technological divide” - tra chi sa e chi rimane escluso. In generale c’è il rischio di una separazione tra esperti e non esperti, o peggio, tra una massa di consumatori, di clienti, ed una elite di cittadini istruiti che sa e decide.

Ecco che il tema della democrazia, si intreccia con la diffusione del sapere, con la battaglia per rilanciare la scuola, l’università e la ricerca nel nostro paese.

La mobilitazione di questi giorni, in tutta Italia, è importante anche perché pone al centro dell’agenda politica questi temi. I giovani, le donne, i lavoratori della conoscenza ci chiedono di prestare attenzione al loro futuro come studenti, come ricercatori ed insegnanti ma, soprattutto, si battono per il futuro del nostro paese.

Dobbiamo ringraziarli per questo!

* Astronauta e Parlamentare Europeo